A proposito di inclusione

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Sintomo e trasformazione

Talvolta è un imbarazzo improvviso, una scarica di adrenalina, una stretta, insomma un sintomo corporeo inatteso e inconsueto a segnalarci, come un campanello d’allarme, che dobbiamo fermarci a riflettere su qualcosa che ha scosso le nostre certezze e ci ha messo alle corde.

Sono momenti rari e preziosi, questi, di cui prendersi cura con dedizione, poiché ci segnalano piccole o grandi crisi biografiche che ci forniscono feconde opportunità di trasformazione. Le forme nuove, nelle quali andiamo costantemente trasformandoci, emergono da questi momenti di consapevolezza delle crisi e dei transiti che sono il carattere proprio della nostra esistenza.

La nostra salute stessa – intesa nel senso più ampio e complesso che con questo termine si possa intendere – dipende soprattutto da queste fasi di raccoglimento in noi stessi che promuovono il rinnovamento spirituale, grazie all’emergere del senso dell’instabilità, dell’imperfezione, dell’indigenza proprie della condizione umana. 

La certezza della stabilità del nostro essere è certo confortevole ma nei momenti di acuta consapevolezza si rivela come una illusione cognitiva priva di fondamento.

La via maestra non è mai segnata e lo smarrirci ci indica il percorso, accidentato e tortuoso, verso la salute – perché di salute si tratta! –, vale a dire verso l’incontro con noi stessi e verso l’avvicinamento leale all’altro.

La strana storia di un omicidio sognato

L’irruzione, repentina e brutale, del sintomo corporeo ci riconduce, con un soprassalto violento, a qualcosa che abbiamo nascosto a noi stessi, a qualcosa che ci riguarda ma non ci piace, a qualcosa che non possiamo rassegnarci a considerare ‘anche’ nostro, non solo appannaggio di altri

Ci riporta forse all’origine di una separazione, di un taglio, di una negazione, a causa della quale il modo in cui pensiamo noi stessi risulta mutilato, ma anche artificiosamente restaurato e abbellito. Quel sintomo scuote senza riguardo l’ideale di noi stessi che nel tempo avevamo, più o meno consapevolmente, disegnato e al quale ci eravamo affezionati, proprio grazie a progressive esclusioni e occultamenti. 

In un breve e illuminante saggio dedicato proprio alla negazione, Freud racconta un aneddoto significativo riguardante un proprio paziente. Portando in seduta un sogno nel quale si scopriva a uccidere la moglie, il paziente si preoccupava di chiosare il racconto del proprio sogno, rivolgendo, con un certo accoramento, a Freud la seguente perorazione: «Dottore, non vorrei che lei pensasse che desidero davvero la morte di mia moglie…».

Inutile dire che il Dottore considerò proprio questa perorazione ancora più significativa del sogno stesso e su di essa esercitò la propria acribia interpretativa.

Non era in ballo una ricognizione di ciò che è bene o male desiderare – ammesso che sia possibile sottoporre il desiderio al vaglio morale – sulla base delle convenzioni culturali o etiche di un determinato gruppo sociale, né tantomeno era in gioco un’esposizione dei principi che guidavano i pensieri e i comportamenti del paziente.

Si trattava piuttosto di comprendere, in una onesta alleanza tra terapeuta e paziente, ciò che in quel momento si agitava nell’anima di quest’ultimo a proposito della relazione con sua moglie.

Non si trattava di stabilire un dover-essere, né di dare una valutazione di qualunque genere, ma di constatare ciò che accadeva e che emergeva nella sua ambivalente complessità.

Per questo occorreva una epistemologia flessibile e uno sguardo sensibile alle cose nella loro fluttuante varietà e verità e il più scevro possibile da pregiudizi. Non certo per caso, lo sguardo di Freud è magistrale, la sua interpretazione illuminante.

Le cose non sono come vorremmo che fossero

In genere sappiamo come vorremmo che andassero le cose del mondo, come vorremmo essere noi stessi, come vorremmo che gli altri si comportassero. 

Disegniamo costantemente immagini ideali, nitide e ben temperate, nelle quali riponiamo speranze e consolazioni, rispetto a ciò che realmente accade e ci ferisce o ci delude. Talora non ci accorgiamo che proprio queste immagini ideali costruiscono i nostri esilii, il disaccordo con ciò che accade, la distanza da noi stessi e dagli altri, la disarmonia con il cosmo.

In genere accogliamo volentieri dentro di noi ciò che giudichiamo luminoso, corretto, giusto, adeguato, scartiamo invece ciò che riteniamo ombroso, oscuro, negativo. In una attitudine manichea distinguiamo il bene dal male e ci impediamo di vedere il male in noi, quasi volessimo mettere in dubbio la nostra appartenenza – di creature fragili e imperfette come tutti – alla medesima condizione umana. 

L’immagine nitida e ben definita di noi stessi che emerge da questa attitudine giudicante risulta confortevole nella sua rigidità, ma tradisce la relazione di noi con noi stessi anzitutto, ci restituisce di noi un’idea mutilata, falsa, ci allontana da noi.

Non è un percorso salutare quello che vela il male in noi, ne deriva un occultamento luttuoso: quella parte di noi che non soddisfa le nostre pretese di compiutezza e stabilità non ha diritto di vivere, secondo il tribunale del nostro giudizio.

E proprio se di tanto in tanto emerge nelle pieghe del pensare, del dire o del fare, a maggior ragione va rinnegata e uccisa. La conseguenza di questo percorso di negazione e occultamento non è solo psicologica, non riguarda solo la relazione con se stessi, ma anche relazionale, sociale, il male è relegato all’esterno, gettato sull’altro, sulla società.

Se è vero che la buona salute è anzitutto il frutto di un buon equilibrio relazionale – con sé, con l’altro, con le comunità grandi e piccole che attraversiamo, con il cosmo – occorre che ci mettiamo sulla strada di riconoscere come nostro, e quindi di renderci familiare e in certo senso amico, anche tutto ciò che tendiamo a respingere e attribuire ad altro/i da noi.

Occorre entrare in una dimensione di scomodità, di crisi, in cui l’ambivalenza e l’incertezza siano garanti di una rinuncia alle definizioni, alle certezze, alle fissità.

Occorre amare anche ciò che contrasta con i nostri principi incrollabili, se si presenta come parte di noi, in quanto parte del genere umano.

E proprio perché nulla di ciò che è umano ci è estraneo, occorre ancora di più conoscere, accogliere e vigilare sul negativo, affinché ciascuno di noi «non diventi un flagello per se stesso e per l’altro».

 

 

 

L'immagine è un particolare di My Portrait (Self-Portrait in the Green Bugatti) di Tamara de Lempicka (1929)