A un primo sguardo, potrebbe sembrare una riflessione distante dai nostri temi consueti. Ma se avrete la pazienza di proseguire nella lettura, emergerà la connessione profonda con ciò di cui abitualmente trattiamo in questo blog.
Provo a presentare alcuni esempi, senza esplorare dove siano i torti e le ragioni.
A favore della sostenibilità e dello sviluppo sostenibile, si è legiferato tanto a livello nazionale e sovranazionale; eppure, il movimento “Ultima generazione” rivendica il proprio diritto alla sopravvivenza su questo pianeta, considerando ingiuste le condotte dei governi che - dal loro punto di vista - operano senza tenere conto delle conseguenze di questo agire sulle generazioni future.
In Italia sta aumentando la povertà tra persone che pure lavorano ma che - nonostante percepiscano un reddito - non riescono a provvedere ai bisogni essenziali propri e delle proprie famiglie. Alcuni partiti propongono l'introduzione, per legge, di un salario minimo; altri lo considerano un provvedimento inutile e in determinate circostanze, perfino dannoso perché potrebbe indurre a rinegoziare al ribasso alcuni contratti di lavoro.
La nostra Costituzione - Carta fondamentale cui tutte le leggi nazionali devono richiamarsi - all' art. 36 sancisce che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.”
Come si definiscono libertà e dignità umana?
Qual è il modo migliore per garantirle?
Parlando - come spesso facciamo - di inclusione, pensiamo a quanto - nonostante le norme vietino qualunque discriminazione - le organizzazioni sono vissute come inclusive eque e accessibili dalle donne, da persone con disabilità, delle persone lgbtqia+, dalle persone appartenenti a minoranze etniche o religiose, migranti, ecc.
In questi casi, vale la pena di chiedersi se basti una norma a sancire un diritto, e ancora qual è il limite tra diritto individuale e collettivo; in che modo diritti che possono diventare confliggenti possano coesistere.
Il rapporto tra legge e giustizia è stato oggetto di riflessioni di numerosi filosofi nel corso dei millenni, vediamo come.
Il pensiero greco e romano
Sebbene il diritto, nel senso di corpus normativo così come concepito anche in epoca moderna, appartenga alla cultura romana, alcuni dei suoi principi portanti risalgono certamente a periodi precedenti.
Aristotele ha esplorato a fondo i temi della giustizia (in senso morale) e dell’applicazione delle leggi, gettando le basi di pensiero di concetti che - almeno nei Paesi democratici -sono ormai considerati come dati di fatto.
Egli considera la giustizia (oggi diremmo l'equità) come una virtù morale che deve guidare tanto i comportamenti individuali quanto l'organizzazione della società. In particolare, Aristotele ritiene che la giustizia non sia solo un insieme di leggi e regole ma una pratica che contribuisce al benessere e all'armonia della società, anche attraverso un'applicazione equa delle leggi che, non potendo prevedere e coprire tutte le situazioni specifiche, necessitano dell'interpretazione e del discernimento umani.
Per Aristotele giustizia non significa conformità alle leggi ma – piuttosto - che le leggi devono essere giuste in sé e orientate verso il bene comune.
Platone si concentra maggiormente sul rapporto tra individuo e stato, sostenendo che i legislatori dovrebbero esser persone sagge e virtuose e che le leggi dovrebbero essere tutte fondate sulla considerazione della natura umana e sul bene comune.
Primo tra i pensatori dell'antichità, Platone - nel Protagora - evidenzia la differenza tra il bisogno (emotivo) di vendetta e rivalsa di una persona e il dovere (razionale) dello Stato di (ri)educare chi abbia violato le leggi.
“Nessuno punisce i colpevoli tenendo presente il fatto che hanno commesso ingiustizia e per il fatto che l'hanno commessa, chi, almeno, non voglia vendicarsi irrazionalmente come una bestia; chi, invece, si pone a punire, seguendo ragione, non pretende vendicarsi dell'avvenuto misfatto - non potrebbe certo far sì che non sia accaduto ciò che è stato -, ma punisce pensando al futuro, sì che più non commetta la colpa, né lo stesso colpevole né chi lo vede punito. E se tale è il suo punto di vista, significa ch'egli è convinto che alla virtù si possa educare: punisce, dunque, per distogliere dalla colpa".
E il pensiero va a quegli ordinamenti e orientamenti dei nostri giorni che ancora considerano l'inasprimento delle pene come un efficace deterrente alla violazione di norme siano esse penali, civili o amministrative.
Al diritto romano si deve il merito di avere strutturato e organizzato il diritto, regolando -per iscritto e in codici appositi - i rapporti tra cittadinanza e stato, il diritto privato, incluso quello di famiglia e del commercio, e quello penale, regolando ogni ambito della vita pubblica e privata e prevedendo, per la prima volta, una distinzione tra chi emana le leggi (Senato) e chi le fa rispettare (Magistrature).
Con una sintesi un po' riduttiva, il diritto romano - fondato in gran parte sul diritto naturale ovvero su principi di giustizia e moralità considerati intrinseci alla natura umana - lasciava grande libertà all'iniziativa privata (seppure regolamentata) e imponeva alle Magistrature di applicare le leggi non rigidamente ma secondo equità e giustizia e tenendo conto dei casi specifici.
Si noti che, pur essendo quella romana una società fondamentalmente maschilista, le donne - almeno fino a Diocleziano (1235 d.C.) - mantenevano la proprietà dei loro beni anche dopo il matrimonio e ne tornavano nel pieno possesso in caso di divorzio.
Il diritto romano riconosceva anche il concetto di giustizia distributiva, che riguardava la distribuzione equa delle risorse e dei diritti tra i membri della società. Questo concetto era incorporato in molte leggi e istituzioni romane, come le leggi sulle eredità e la proprietà, e rifletteva la preoccupazione per la giustizia sociale ed economica.
Il pensiero medievale
Nel pensiero medievale occidentale, fortemente condizionato dal cristianesimo, la giustizia era promanazione della volontà di Dio ed essere nel giusto corrispondeva al sottomettersi a questa volontà.
In questo periodo, prende nuovo vigore il concerto di diritto naturale, soprattutto grazie a Tommaso d'Aquino, che lo considera come la partecipazione umana alla legge di Dio.
Egli considera la legge eterna - con cui Dio governa il mondo - come la fonte suprema di tutte le leggi e il diritto naturale come la sua esplicazione umana fondata su principi universali e immutabili e basata sulla ragione. Per Tommaso d'Aquino il diritto naturale ha lo scopo di promuovere il bene comune, preservare l'ordine sociale e garantire la giustizia. Pertanto, il diritto positivo - il sistema di leggi creato dall'uomo - per essere valido e giusto deve essere conforme al diritto naturale.
Il pensiero illuministico
L'illuminismo riporta al centro la persona e la sua capacità di discernere razionalmente il bene dal male senza l'esigenza di influenze esterne o superiori.
In questo periodo di grande fermento intellettuale e politico, Giovanni Battista Vico avanza l'idea di uno sviluppo delle società umane fondato su una legge naturale che non è basata su principi astratti ma sui diversi modelli di comportamento umano nel tempo.
Di conseguenza, le leggi e le istituzioni giuridiche non sono frutto di una razionalità astratta, ma condizionate da credenze, tradizioni ed esperienze condivise da una comunità; e la giustizia è dunque espressione della volontà collettiva e delle esigenze di quella comunità.
Un esempio di questo modello è la nostra Costituzione che tra i suoi principi fondamentali e nella parte I (Diritti e doveri dei cittadini) elenca una serie di diritti - la non discriminazione per ragioni politiche o religiose, l'inviolabilità della libertà personale, il diritto di associarsi tra gli altri - che sono evidentemente frutto dell'esperienza fascista.
Tra i filosofi illuministi che hanno contribuito alle riflessioni sulla giustizia si deve citare Immanuel Kant. Uno dei concetti cardine della sua teoria morale è l'imperativo categorico, un principio etico che guida l'agire indipendentemente dai desideri personali o dalle circostanze particolari, così sintetizzato "Agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale". A ben vedere, l'invito di Kant è - prima di fare una scelta - a fermarsi e riflettere sull'impatto che quella scelta avrà oltre il proprio immediato vantaggio personale. E all'impatto che il comportamento conseguente potrebbe avere se venisse replicato da altre persone e nel tempo.
Il principio di utilità
L'utilitarismo, il cui primo divulgatore tu il filosofo e giuridico britannico Jeremy Bentham, è una teoria etica che sostiene che un'azione (e una legge) moralmente corretta è quella che massimizza il benessere complessivo, ovvero che genera la maggiore quantità di felicità al maggior numero di persone, creando il minimo disagio alle altre.
Secondo Bentham, piacere e dolore di ogni individuo, devono essere considerati in modo equo, senza discriminare alcun soggetto o gruppo a scapito di altri.
Il pensiero di Bentham è stato poi sviluppato da John Stuart Mill che ha spostato la valutazione del piacere e del dolore dalla quantità alla qualità e distinto tra piaceri intellettuali (considerati superiori) e fisici (considerati inferiori).
Da ciò ha fatto scaturire ulteriori riflessioni su temi cruciali e antesignani di movimenti politici culturali successivi (alcuni ancora in corso):
- la libertà individuale da estendersi fino al limite di non arrecare danno ad altre persone o alla comunità
- i diritti delle donne con particolare critica alle discriminazioni sociali e sostegno al suffragio femminile (“La sottomissione delle donne"-1869)
- il liberalismo classico che promuove la libertà individuale contro i pericoli di dispotismo della maggioranza nel governo delle Nazioni.
Il secolo scorso
Avvicinandoci ai nostri giorni, non si può non menzionare il contributo di Hanna Arendt, che ha affrontato in diversi contesti i temi del diritto e della giustizia.
Criticando, l'idea di giustizia come concetto astratto e universale, ha invece enfatizzato l'importanza della responsabilità individuale nella creazione e nella conservazione di una società giusta.
Una giustizia, quindi, non astratta e garantita da un'autorità esterna, ma fondata sul pluralismo e sulla tutela della dignità umana, sostenuti da un impegno sincero all'autenticità e alla trasparenza.
Conclusioni
Da questo breve excursus emergono alcune ricorrenze e riflessioni.
Bene comune
Fin dall'antichità, si è attribuito alle leggi e agli ordinamenti il compito di garantire - o almeno perseguire - il bene della collettività.
Certo, quelle che nell'antichità erano considerate democrazie oggi ci appaiono - nella loro versione migliore - oligarchie; ed esistevano la schiavitù e forti diseguaglianze sociali e di genere. Tuttavia, un bene il più possibile generalizzato è stata una vocazione umana fin dall'antichità con un progressivo spostamento della relativa responsabilità dallo stato alle singole persone.
Equità
È sorprendente come un concetto che oggi consideriamo 'moderno', appartenga - in realtà - alla storia del pensiero umano in tema di giustizia. Come abbiamo visto, già il diritto romano imponeva ai magistrati - incaricati di garantire il rispetto delle leggi - di tenere conto, nei loro giudizi, dei casi specifici. Oggi definiamo l'equità come la consapevolezza che ciò che per alcune persone costituisce una condizione neutra o addirittura di vantaggio, per altre può costituire un ostacolo e una condizione di svantaggio. In questo senso va interpretato il principio - nato dall'illuminismo e dal pensiero liberale - "la legge è uguale per tutti": chiunque deve vedere riconosciuti i propri diritti e sottostare ai medesimi doveri, indipendentemente dalle proprie condizioni originarie; e tuttavia quelle condizioni originarie costituiscono motivo attenuante o aggravante nella valutazione dei comportamenti.
La valutazione dell'impatto
Il pensiero liberale - a partire dal 1700 - ha ampliato lo spettro delle libertà individuali (anche in contrapposizione ai governi autoritari) accompagnate, però, da un altrettanto forte responsabilità. L'imperativo categorico di Kant incita proprio a considerare l'impatto delle proprie scelte, guardando oltre il proprio momentaneo interesse e considerando le conseguenze di una universalizzazione di quella scelta.
La domanda da porsi, allora, non è più solo "E' giusto per me?" ma "E' giusto per me e per il mondo?"
Individualità e collettività
Questa domanda ci aiuta anche in tutte quelle questioni che riguardano la sfera dei diritti civili. La premessa - che a volte su temi sensibili, che toccano la morale individuale, prediamo di vista - è che un diritto non è un dovere.
Se un comportamento è consentito, possiamo sempre scegliere se adottarlo o meno, secondo le nostre personali sensibilità e regole di condotta.
Di più: se la domanda sulla giustizia include il "mondo", allora acquista senso impegnarsi per la salvaguardia di diritti che ‘non ci riguardano’.
Per fare un esempio non divisivo, il diritto allo studio dei e delle giovani, se guardiamo al bene del Mondo, è interesse anche di chi non è più giovane e non ha figli(e).
Ogni volta che ci coglie la tentazione di far prevalere la nostra morale attraverso la legge, o ci disinteressiamo di alcuni dibattiti perché non ci riguardano, ricordiamoci che i concetti di 'giusto' e 'sbagliato', 'diritto 'e ‘abuso’ non sono uguali per tutte le persone; ricordiamo che il nostro punto di vista non è Il punto di vista; soprattutto, ricordiamoci che i diritti, quando non sono privilegi, una volta conquistati, vanno condivisi con la più ampia platea possibile, perché possano essere salvaguardati.
Per non rischiare di entrare a far parte di una qualche minoranza alla quale, rispettando la legge si nega giustizia, come espresso dal pastore protestante Martin Niemöller a proposito dell’inattività degli intellettuali tedeschi nei confronti del nazismo: “Quando i nazisti presero i comunisti io non dissi nulla perché non ero comunista. Quando rinchiusero i socialdemocratici io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico. Quando presero i sindacalisti, io non dissi nulla perché non ero sindacalista. Poi presero gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa”.