Perché lavoriamo?
Certamente perché per il lavoro svolto percepiamo un compenso, con il quale acquistiamo beni e servizi e - chi può - assicuriamo il futuro nostro e delle persone che amiamo.
Fin qui, più o meno, chiunque di noi può ritrovarsi, anche chi faccia un lavoro che non consideri appassionante e nemmeno soddisfacente.
Quanto basta a farci alzare ogni mattina e adempiere ai nostri doveri. Quanto basta (e non sempre) per soddisfare bisogni materiali.
Non abbastanza perché lavorare ci renda felici.
In questa prospettiva, il lavoro è un mero scambio: tempo contro denaro. Si, perché nella maggior parte dei lavori la retribuzione è a tempo; quindi, ciò che ci viene chiesto è di fare ciò che sappiamo fare in un certo tempo, senza prendere in considerazione la qualità di ciò che facciamo o l'eventualità che noi si sappia fare di più.
Ecco perché - continuando a generalizzare - il venerdì è il giorno della settimana preferito da chi non lavori su turni.
Tenendo conto che - al netto degli spostamenti - trascorriamo un terzo delle nostre giornate, per la metà della nostra vita, al lavoro, non sembra certo un bel vivere.
Qualcosa è cambiato
Eppure, il rapporto con il lavoro non è sempre stato così, e sta tornando a esserlo sempre meno. Dal dopoguerra e fino alla fine degli anni '60 del Novecento il lavoro identificava e generava senso di appartenenza.
Le persone non facevano un lavoro, erano il loro lavoro, indipendentemente dal prestigio del ruolo. Gli operai della FIAT o di Olivetti non dicevano "faccio l'operaio" ma "sono un operaio".
In questo essere invece di fare, si esprimeva il valore attribuito al proprio contributo a un progetto grande e prestigioso.
Negli anni Ottanta e Novanta il lavoro è diventato progressivamente uno status sociale e - soprattutto - economico.
Così, il prestigio del lavoro viene sempre più correlato alla ricchezza che genera per chi lo svolge.
La qualità del lavoro svolto o il livello di contributo al progetto più ampio dell’organizzazione, sono meno rilevanti del livello di carriera che individualmente si riesce a raggiungere e della rapidità con cui si produce o si ottengono risultati.
Il lavoro è sempre meno collettivo e sempre più individualista.
Con l'inizio del nuovo millennio, il rapporto individuale con il lavoro è diventato più vario, anche a causa di una maggiore mobilità tra diverse organizzazioni e talvolta anche tra ruoli.
Il rapporto con il lavoro delle giovani generazioni
Un luogo comune di questi ultimi anni è che le persone più giovani non abbiano voglia di lavorare o almeno che non abbiano lo spirito di sacrificio e la pazienza di crescere che "avevamo noi".
A mia memoria di cinquantenne queste ‘colpe’ venivano imputate anche alla mia generazione, salvo che – forse - la maggior parte di noi non avrebbe osato alzarsi da un colloquio di lavoro dicendo "vi farò sapere".
È davvero un male? Pensiamo davvero che queste persone, giovani e preparate (mediamente) siano solo arroganti e viziate?
Cosa è cambiato
Dal nostro osservatorio - personale e professionale - i giovani hanno smesso di identificarsi con il proprio lavoro e lo considerano come uno dei modi di esprimere la propria personalità e conseguire i propri obiettivi.
Il lavoro non è più uno strumento di riscatto sociale né uno status symbol.
È un mezzo e non un fine.
Un mezzo per la propria realizzazione personale.
Stando ad alcune ricerche, la domanda più ricorrente, prima che la retribuzione e il piano di carriera, riguarda le opportunità di formazione e crescita personale. E poi le opportunità di smart working e l'autonoma gestione del tempo.
La vera domanda
Una domanda prevale su tutte: Perché?
Perché dovrei lavorare in questa organizzazione?
Perché devo svolgere un determinato compito?
A quale obiettivo più grande sto contribuendo attraverso le mie azioni?
Che senso ha per me essere qui?
Che senso ha per l'organizzazione che ci sia proprio io?
Non domande capziose per nascondere pigrizia e alterigia.
Sono in realtà le domande di chi cresce.
“Perché?” è la domanda tipica dell'infanzia, ripetuta fino allo sfinimento di noi adulti che ci illudiamo che l'inesperienza sia una debolezza quando invece dovremmo vederla come una opportunità per tenere viva la curiosità, il desiderio di apprendere e sperimentare con creatività.
Dal lato delle organizzazioni, tutto questo si chiama - dovrebbe chiamarsi – innovazione.
Dal lato delle persone, significa identificare e attribuire senso al proprio lavoro, indipendentemente dai ruoli e dalle retribuzioni.
Sfatati i miti del 'posto fisso' e della meritocrazia intesa come media ponderata tra obiettivi raggiunti e sforzo profuso per raggiungerli, accettata la realtà di un lavoro più precario e mobile (anche geograficamente) e di una vecchiaia senza tutele, le giovani generazioni recuperano la centralità dei propri valori e ne misurano la corrispondenza con il loro ambiente.
E chissà che tra noi ex giovani non ci sia chi si riconosca in questo modo di affrontare la vita e il lavoro.
Great work
‘Great work’ è l'espressione inglese per descrivere il lavoro ben fatto, che genera impatti positivi importanti, anche oltre il suo ambito specifico.
Di più, un great work è un lavoro significativo per chi lo ha svolto, coerente con la persona, che le dà senso, energia e direzione, mentre attiva le sue migliori energie.
In questa accezione ‘Great Work’ è anche il nome che abbiamo scelto per la sezione - all'interno della nostra academy - dedicata a chi vuole accrescere i propri impatti positivi attraverso il proprio lavoro, indipendentemente da ruoli, funzioni e professionalità.
Siamo convinte - sostenute anche dall'esperienza - che per portare contributi significativi non sia indispensabile essere in ruoli strategici e certamente non occorra fare cose straordinarie o stravaganti.
Ciò che rileva non è il cosa si fa ma il come.
Guardandole con le lenti degli IDGs (Inner Development Goals) - e attraverso di esse lavorando su di sé - azioni consuetudinarie possono portare risultati straordinari.
L'impatto del nostro agire sul nostro ecosistema è l'impronta che lasciamo al nostro passaggio nel Mondo.
Sta a noi scegliere quanto significativa fino a - perché no? - grandiosa.