Trattando il tema dell'inclusione e dell'interculturalità, il pensiero va anche ai temi di genere.
Temi certamente caldi, per certi aspetti divisivi, rispetto ai quali vorremmo provare a fare alcune riflessioni più ampie del solito ‘maschi vs femmine’.
Da dove partiamo
Dall'inclusione: ovvero da quella postura mentale e comportamentale che considera l'alterità un dato di fatto e una fonte di arricchimento.
E dall'interculturalità, intesa come incontro e dialogo tra differenti punti di vista e prospettive (indipendentemente da origini etniche, geografiche, religiose, ecc.).
A partire da questi due approcci, le questioni di genere assumono prospettive differenti e consentono visioni più ampie.
Lungi dall'avere la soluzione universale, universalmente accoglibile, proviamo ad accendere qualche riflettore e qualche riflessione.
Se parliamo di genere...
... non parliamo di biologia ma di identità.
La questione è altamente divisiva e non si vuole offendere o ferire alcuna sensibilità ma, nel 2023, è difficile parlare di genere solo in senso biologico.
Le nuove generazioni, mediamente, accolgono una varietà di identità che può sembrare a volte eccessiva ma che forse è solo un modo per rivendicare il principio base dell'inclusione: ogni persona è unica e, nella propria unicità, è differente da ogni altra.
Includere una persona implica il riconoscerla nella sua autentica unicità, e il genere con cui si identifica è un elemento fondamentale. Determina come vuole essere appellata, il nome proprio al quale vuole rispondere, la libertà di rendere il proprio aspetto esteriore coerente con il proprio sentire interiore, senza incontrare sguardi attoniti o – peggio - infastiditi, derisori, condiscendenti o pietistici.
In certi ambienti sociali tutto ciò è vero e naturale, in altri inaccettabile.
Chi ha ragione?
L'unica via che sembra possibile è nel dialogo aperto, nell'esplorazione delle reciproche unicità, di ciò che allontana e di ciò che accomuna per uscire dalla trappola delle categorie e - di conseguenza - dell'antagonismo.
Gli stereotipi danneggiano (anche) gli uomini
Torniamo, per semplicità espositiva, alla dualità uomo - donna.
Gli stereotipi di genere vengono per lo più esplorati negli elementi che danneggiano le donne. Ma quegli stessi stereotipi danneggiano anche gli uomini.
Anche all'interno delle organizzazioni, quegli stessi preconcetti che escludono le donne da determinati ruoli e funzioni, costringono gli uomini a corrispondere a un modello che non necessariamente li rappresenta.
Vediamo qualche esempio (volutamente esasperato per rendere l’immagine)
Deve imparare presto a nascondere le emozioni
Un vero uomo non ha paura, non tituba, non piange; almeno non in pubblico.
Non può piangere né per dolore, né per gioia, né per rabbia. Non può e basta.
Le donne sono emotive (ragione per la quale non sembrano adatte ai ruoli di guida); un uomo non cede mai all’emotività.
Deve vincere
Deve essere il primo, sempre, perché la competizione è nel suo DNA.
Può fare squadra, a patto di esserne il capitano.
Se non ci riesce, deve fare squadra e conquistare il capitano. Vice è sempre meglio di niente.
Se proprio non ha la stoffa, può fare squadra per nascondersi dietro le spalle del ‘maschio alfa’.
Si dice che, in un medesimo contesto, gli uomini fanno squadra e le donne si fanno la guerra.
Spesso è vero, ma raramente le squadre maschili sono tra pari: le gerarchie e i ruoli sono rigidamente definiti; e chi non si adegua, è fuori.
Lavora e… basta
Se sei un uomo, puoi tranquillamente restare in ufficio fino a tarda sera. Tanto non hai nient’altro da fare.
Cioè: non hai affetti, interessi, desideri che non siano ascrivibili al tuo lavoro.
Come se fuori da quello spazio ci fosse il vuoto.
Se una donna non lavora fuori e si occupa di casa e famiglia è una casalinga; per un uomo non c’è una parola che lo possa definire.
Perché, semplicemente, non è concepibile.
Il padre all’inizio non serve
L’inizio è l’inizio della vita, o l’ingresso nella famiglia adottiva di un figlio o di una figlia; cui il padre può solo limitatamente assistere e partecipare.
In Italia, attualmente, un uomo ha diritto a dieci giorni di congedo per paternità nell’anno della nascita o dell’ingresso in famiglia (i 10 mesi di congedo facoltativo prevedono una drastica riduzione della retribuzione, fino all’80%).
Tanto c’è la madre: il padre non serve.
Dal punto di vista pratico può, in parte, essere vero (ma se la madre non allatta, o in caso di adozione, l’alibi crolla); ma dal punto di vista relazionale?
In quale momento il padre diventa importante?
Secondo questa logica, mai. I congedi non aumentano al crescere dell’età della prole.
Come fa un padre a costruire il rapporto con suo figlio o sua figlia se non può dedicare tempo di qualità?
E se decide di sospendere per un periodo il lavoro per dedicarsi alla famiglia, perde anche il titolo di papà, e diventa un “mammo”.
Donne tra sorellanza e scarsità
Un luogo comune vuole che le donne non sappiano fare squadra tra loro. Eppure, nelle culture arcaiche di moltissimi Paesi del mondo, così come nella mitologia greca, si sono tramandate storie di comunità femminili perfettamente autosufficienti (si pensi alle amazzoni o alle sirene o alle comunità di sacerdotesse)
Cosa è accaduto?
È accaduto che si è sviluppata una società maschile, non necessariamente maschilista ma a misura d'uomo.
Per secoli alle donne è stato negato l'accesso a determinate professioni intellettuali come la medicina o la giustizia (in Italia il primo concorso pubblico in magistratura aperto alle dame risale 1963) e questo ha favorito lo sviluppo di preconcetti sulla predisposizione femminile verso certe materie.
Ancora oggi, le ragazze che scelgono materie c.d. STEM (scientifiche, tecniche, ingegneristiche e matematiche) sono una minoranza e tra queste una percentuale ancora minore cerca attivamente lavoro nei campi per i quali ha studiato.
Niente di male finché si tratta di una scelta, male se queste scelte sono indotte dalla convinzione - o peggio dall' esperienza- che non ci sia posto per loro in questi ambiti.
Più in generale, nelle aziende, man mano che si sale nella scala gerarchica, le donne diventano sempre più rare.
Come se non fossero adeguate ai ruoli di guida e decisione strategica.
Ecco allora che si genera una percezione di scarsità che induce alla competizione. Tecnicamente - giuridicamente e spesso anche nelle intenzioni consapevoli - nulla impedisce a una donna di assumere questi ruoli. Ma le aziende - specchio della società - sono a misura d'uomo e la carriera mal si concilia con la maternità e, in generale, con gli oneri di cura.
Le assenze prolungate e/o improvvise, l'esigenza di orari non troppo flessibili, di pianificare per tempo le trasferte, la cui durata deve essere limitata all'essenziale, non sono compatibili con la crescita professionale in organizzazioni tradizionali.
Così, quando una donna arriva a ricoprire un ruolo apicale, magari a costo di sacrifici e rinunce, sente di doverlo difendere a ogni costo, contro chiunque potrebbe sottrarglielo.
E poiché i suoi sacrifici le ricordano che quel ruolo era stato immaginato per un uomo, pensa che sia inutile tentare di difenderlo da un potenziale avversario e riversa la sua competitività verso qualunque potenziale avversaria. Non sempre, non tutte, naturalmente.
Qualcosa sta cambiando
La società evolve e con essa i modelli organizzativi.
Così, se ancora ci troviamo a celebrare ‘la prima donna’ in qualche incarico prestigioso, si stanno progressivamente affermando modelli organizzativi inclusivi, nei quali il genere è irrilevante per la crescita professionale.
Una particolare attenzione all'inclusione (anche di genere) è parte del modello delle società benefit e delle B Corp, che - forse anche perché statisticamente a forte presenza e guida femminile - non solo adottano politiche interne fortemente inclusive (a beneficio, va detto, anche della componente maschile) ma cercano di diffondere il proprio modello.
Un esempio è la pubblicazione "Towards Gender Equality", a cura di B Lab Italia in cui sono raccolti casi studio e linee guida sull'inclusione di genere a partire dall'esperienza di alcune aziende aderenti, tra le quali anche noi di Bottega Filosofica.
Equità non Eguaglianza
Non è una mera questione terminologica.
L'uguaglianza non è inclusiva. Sembra assurdo ma dire "Siamo tutti uguali" significa cancellare le differenze e con esse le peculiarità che rendono unica ogni persona.
Ecco perché preferiamo il concetto di equità: perché significa dare uguale diritto di accesso a tutte le persone, tenendo conto delle loro differenze.
Paradossalmente, l'equità discrimina tra le condizioni di partenza per rendere uguale l'arrivo.
Una società (e un'organizzazione) equa non riconosce gli individui come uguali ma dà loro gli stessi diritti e le stesse opportunità a partire dalle loro differenze.
Con riferimento alle questioni di genere, è questo l'approdo che consideriamo davvero desiderabile: uno spazio in cui tutte e tutti sentano di essere nel proprio ambiente, in cui poter esprimere autenticamente il proprio potenziale e vederlo valorizzato nella sua pienezza che include - ma non si limita a - l'identità di genere.