Sperare è un verbo: tra utopie concrete e azioni possibili

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In un tempo segnato da cinismo e disincanto, la speranza rischia di essere scambiata per illusione o per attesa passiva.

Ma la speranza autentica – come mostrano Ernst Bloch, Goethe e Joanna Macy – è tutt’altro: una forza trasformativa che orienta l’agire e apre al possibile.

È la capacità di vedere nel presente i semi del futuro, di immaginare ciò che non è ancora e di iniziare a costruirlo insieme ad altri.

Bloch parla di utopia concreta, Goethe di audacia che genera il futuro, Macy di speranza attiva che nasce dal riconoscere il dolore del mondo e scegliere comunque di agire per ciò che amiamo.

Sperare, allora, è un verbo: un lavoro quotidiano, individuale e collettivo, che trasforma il desiderio in gesto e fa della realtà un cantiere aperto di possibilità.

Perché parlare di speranza oggi? Perché il lessico pubblico oscilla tra fatalismo e ottimismo ingenuo.

Se con il termine speranza intendiamo uno stare fermi senza pensare o fare nulla, aspettando che qualcosa accada mentre noi continuiamo a fare ciò che abbiamo sempre fatto come lo abbiamo fatto sempre, in effetti è almeno difficile che qualcosa arrivi davvero a cambiare lo status quo quale esso sia. Già solo la logica ci dice che comportandoci sempre nello stesso modo, otterremo sempre gli stessi risultati.

È evidente che non possiamo fermarci a questo modo di vedere le cose. La speranza a cui penso non è un sentimento vago, ma qualcosa che orienta l’agire, un’energia che possiamo coltivare — nelle persone, nei gruppi, nelle organizzazioni e nelle comunità — quando impariamo a distinguere tra fantasia consolatoria e utopia concreta.

Il “non-ancora” di Ernst Bloch: abitare l’anticipazione

Così la chiama il filosofo del “Principio Speranza”, Ernst Bloch, che attraverso questo testo monumentale al quale ha lavorato dal 1954 al 1959, ci consegna una grammatica potente: la coscienza anticipante del Noch-Nicht, il “non-ancora”, e l’idea di "utopia concreta", non fuga nel sogno, ma orientamento pratico verso possibilità reali, situate, storicamente specifiche.

Laddove tutti vedono un muro, l'uomo che spera scorge una porta non ancora aperta.

Non si tratta, per capirci, di indossare un paio di ‘occhiali rosa’ né tanto meno di ‘pensare positivo’.

Al contrario, proprio perché vediamo - anche spietatamente - le cose che non vanno, possiamo cominciare davvero a cambiarle, o almeno ci proviamo.

E lo facciamo nonostante le possibili previsioni scoraggianti, perché malgrado tutto, riusciamo a immaginare un futuro migliore e non vediamo l’ora di cominciare concretamente a costruirlo. Malgrado tutto.

La speranza è un principio attivo

Così concepita, la speranza diventa un principio attivo, una forma di conoscenza e di trasformazione del mondo. È quella forza che, contro l'inerzia dell'adattamento, suscita il desiderio di giustizia, di libertà, di comunità autentica.

In un'epoca di disincanto e cinismo, Bloch ci invita a ritrovare il coraggio dell'utopia: non quella astratta e dogmatica, ma un'utopia concreta, operativa, radicata nei bisogni materiali e nelle aspirazioni profonde degli esseri umani.

Un'immaginazione capace di cogliere ‘operativamente’ il seme del futuro nel presente.

Una tensione trasformativa che affonda le radici nella materia stessa del mondo e interroga la realtà a partire dalle sue possibilità inespresse.

Il pensiero di Bloch suona come un richiamo urgente a riscoprire il senso progettuale dell'esistenza.

L'essere umano non è solo ciò che è stato, ma ciò che può diventare. La sua vera essenza non è nel passato, ma nel futuro.

L'utopia concreta, dunque, è ciò che si manifesta nell'immaginario collettivo come anticipazione simbolica di una trasformazione reale. Non è un progetto chiuso, ma un orizzonte aperto, una direzione di senso.

Imparare la speranza

Bloch aveva intuito già a metà del ‘900 che il problema più grave che l'umanità si sarebbe trovata ad affrontare nel futuro non sarebbe stato economico o sociale, ma spirituale: un impoverimento del desiderio, una desertificazione dell'immaginario, una paralisi del possibile.

Oggi, il pensiero calcolante ha invaso ogni campo. I modelli algoritmici determinano i comportamenti; la finanza e la logica della prestazione hanno colonizzato anche le sfere più intime dell'identità.

Nella società postindustriale, ipertecnologica, iperconnessa ma sempre più disconnessa, questo toglie al presente il nutrimento della speranza.

Scrive Bloch: "Laddove l'uomo non spera più, il tempo si spegne, e dove il tempo si spegne la storia diventa immobile: amministrazione del già noto, replicazione di ciò che è stato."

È necessario, allora, imparare a pensare immaginando il possibile, coltivare il linguaggio della speranza.  

"È necessario insegnare a sperare, ma l'insegnamento della speranza non è un addestramento tecnico, bensì una riscoperta del desiderio. Speranza è ciò che rende umano l'uomo. Un mondo senza speranza è un mondo disumanizzato."

Cercare l’eternità nell’attimo

A Ernst Bloch interessa ciò che non è ancora, ciò che nel passato magari era già presente come una promessa, ma che ancora, per qualche ragione, non si è realizzato. Ciò che è rimasto latente, non sviluppato. Come un seme che è rimasto lì, sempre in ombra, e che deve ancora svilupparsi nel futuro.

Per questo suo fondarsi nel passato e protendersi verso il futuro, la speranza è sempre caratterizzata da un sentimento di eternità nell’attimo. Il suo invito non è a cogliere l’attimo, ma a cogliere l’eternità nell’attimo.

La speranza, quella vera, ci porta a cercare ciò che nell’attimo c’è di eterno, e a trovarlo.

La prospettiva, in questo modo, cambia radicalmente rispetto alla visione passiva della speranza.

La speranza non è quindi un rimandare per non fare. La speranza non è passiva attesa: è azione anticipatrice e progettualità intenzionale. Essa ha a che fare con un lavoro che si compie quotidianamente. È un compito.

Sperare è già cominciare a cambiare

Siccome la speranza non è passiva, essa chiama a gettarsi attivamente nel progetto, nella novità che sentiamo arrivare.

C’è rischio, perché la speranza non sa mai esattamente che cosa arriverà, ma è un bel rischio.

La speranza è quasi come una persona, una persona che trascina verso il nuovo, che ci contagia e ci rende, a nostra volta, pieni di speranza. Una persona che progetta e lavora, ma poi si fida, è flessibile, aspetta di vedere che cosa arriva di nuovo e lo accoglie.

Il nuovo è qualcosa che chi spera non conosce, sa solo che è nuovo, mai visto, ne intuisce la bellezza e se ne entusiasma perché sente di appartenere a questo nuovo, ancorché sconosciuto.

Un sentire che è invito, promessa, chiamata.

Sperare è un’azione collettiva

Per sperare, per sperare davvero, dice inoltre Bloch, non si può essere degli individualisti. La speranza, se è autentica, non può riguardare obiettivi individualistici.

Chi spera, cerca alleati, ne ha bisogno, perché deve andare lontano. Ha bisogno di una comunità, di situazioni, cose, persone, che siano in armonia con i propri progetti, che li condividano.

La speranza ha a che fare con il trovare alleati, con l’essere alleati di qualcuno. E anche se talvolta ci si può sentire soli, non bisogna arrendersi e continuare a nutrire dentro di noi la speranza.

Continuare a domandarsi regolarmente “quale non-ancora sto/stiamo coltivando?” e “Che cosa, qui e ora, rende più 'concreto' quel possibile?”. È un cambio di postura: dal ‘se’ al ‘come’.

È un’educazione dello sguardo: imparare a riconoscere i germogli nella realtà imperfetta, per poi nutrirli con pratiche, alleanze, istituzioni.

La natura come alleata

E parlando di germogli, c’è un rapporto stretto tra speranza e natura.

Nell’epoca dell’emergenza ecologica planetaria, Bloch offre una visione potente: la natura non è un oggetto da dominare, è un'alleata da comprendere nel suo divenire, una realtà ancora aperta, non conclusa.

L'umanità stessa è parte di questo processo aperto.

La natura non è una macchina né un palcoscenico: è un cantiere. Essa lavora insieme all'uomo a un mondo che ancora non c'è.

Per questo occorre concepire un nuovo tipo di convivenza che non sia fondato sullo sfruttamento, ma sulla cogenerazione del possibile.

Goethe: la speranza come forza che crea il futuro

Anche Goethe, in una prospettiva più poetica ma non meno profonda, aveva colto la natura generativa della speranza.

Scriveva: “Qualunque cosa tu possa fare, o sognare di poter fare, cominciala. L’audacia ha in sé genio, potere e magia.”

Per Goethe, sperare non è attendere che accada qualcosa: è cominciare a muovere ciò che può accadere.

La speranza autentica non è un rifugio, anche per Goethe è un principio attivo che traduce il desiderio in gesto.

È la forza che trasforma un sogno in inizio, un’intuizione in azione.

In questo senso, la speranza non è contrapposta alla realtà, piuttosto si propone come la sua più intensa forma di collaborazione.

Goethe, come Bloch dopo di lui, invita a non disgiungere mai la speranza dall’azione, né l’azione dal sogno: perché solo chi spera agisce davvero, e solo chi agisce mantiene viva la speranza.

Joanna Macy e l’arte di sperare facendo

Joanna Macy, ecopsicologa e attivista per la pace e l’ambiente, scomparsa pochi mesi fa a 96 anni, ha dedicato tutta la sua vita a esplorare come possiamo mantenere viva la capacità di agire in tempi di crisi.

Nel suo libro “Active Hope” (scritto con Chris Johnstone) introduce un’idea essenziale: la speranza non è un sentimento da coltivare quando abbiamo motivi per sperare, ma una pratica che ci sostiene anche quando non li abbiamo.

Non si tratta di “credere che andrà tutto bene”, ma di scegliere di impegnarsi comunque per ciò che conta.

Per Macy, viviamo in un’epoca dominata da tre narrazioni che competono nel plasmare la nostra visione del mondo:

  1. Business as usual, la storia della normalità: il mondo come macchina di produzione e consumo, da cui si pensa di poter estrarre valore senza limiti.
  2. The Great Unraveling, la storia del disfacimento: quella che osserva la crisi ecologica, sociale e spirituale che ci circonda e ne trae un senso di impotenza e disperazione.
  3. The Great Turning, la storia della trasformazione: il racconto emergente di un cambiamento epocale che coinvolge il modo in cui pensiamo, viviamo e organizziamo la società.

L’Active Hope nasce dal riconoscere tutte e tre queste storie. Non nega la realtà della crisi, ma la guarda in faccia e chiede: “Che ruolo vogliamo avere nella storia che si sta scrivendo?”

È, dunque, una speranza senza garanzie, ma con impegni chiari. Una speranza che non dipende dalle probabilità del successo, ma dalla fedeltà a ciò che amiamo.

L’approccio di Johanna Macy si traduce in un ciclo di quattro movimenti, noti come Work That Reconnects.

  1. Onorare la gratitudine per la vita — riscoprire il legame profondo con tutto ciò che esiste, perché la gratitudine apre lo spazio per la cura.
  2. Accogliere il dolore per il mondo — permettersi di sentire la perdita e la paura, riconoscendole come segni di un’appartenenza viva, non come debolezza.
  3. Vedere con occhi nuovi — comprendere che siamo parte di una rete vivente, non osservatori esterni del pianeta ma nodi interdipendenti della sua trama.
  4. Andare avanti — scegliere consapevolmente azioni che incarnano la direzione in cui vogliamo che il mondo si muova.

Questo percorso, che coniuga ecologia profonda, buddismo e sistemi viventi, è anche una pedagogia della speranza: ci insegna che la disperazione non è l’opposto della speranza, ma una delle sue soglie.

Solo attraversando la consapevolezza della perdita possiamo accedere alla potenza trasformativa dell’impegno.

Per Macy, la speranza è un’energia relazionale: qualcosa che cresce tra le persone quando riconoscono la propria interdipendenza e scelgono di agire a partire da essa.

È un modo di stare nel mondo che restituisce continuità tra il personale e il collettivo, tra il nostro benessere e quello del pianeta.

La speranza non è qualcosa che attendiamo. È qualcosa che pratichiamo, nel momento stesso in cui scegliamo di restare fedeli a ciò che amiamo.”

Nelle organizzazioni, questo si traduce in una prospettiva preziosa:

  • la gratitudine come base per riconoscere ciò che funziona e ciò che merita di essere protetto
  • la consapevolezza del dolore come occasione di apprendimento collettivo e di empatia organizzativa
  • il vedere con occhi nuovi come capacità di risignificare problemi e limiti, individuando connessioni e opportunità nascoste
  • l’agire insieme come pratica di speranza condivisa, che non attende il cambiamento ma lo genera.

Dalla filosofia alla pratica: la speranza come competenza trasformativa

Le ricerche psicologiche di C. R. Snyder mostrano che la speranza non è solo un’emozione, ma una capacità allenabile: nasce dalla combinazione di obiettivi chiari, molteplici vie per raggiungerli e fiducia nel poter agire.

È una competenza che possiamo nutrire — individualmente e collettivamente — ogni volta che traduciamo il desiderio in direzione, la direzione in azione, l’azione in apprendimento.

Nelle organizzazioni la speranza si manifesta così:

  • nel trasformare la crisi in laboratorio di possibilità,
  • nel non accontentarsi di gestire l’esistente ma nel progettare il “non ancora”,
  • nel condividere narrazioni che restituiscano senso all’agire quotidiano.

La ricerca di C. R. Snyder costituisce, pertanto, un ponte prezioso tra filosofia e pratica organizzativa.

Alcune pratiche per coltivare speranza nelle organizzazioni

  • Rendere visibile il “non-ancora”: tenere un Backlog del Possibile — non sogni a caso, ma iniziative con ipotesi verificabili, sponsor, metriche d’impatto.
  • Coltivare uno spazio interno condiviso: rituali di conversazione che riducano asimmetrie e facciano emergere argomenti migliori (forum deliberativi, retrospettive condivise, sessioni di sense making).
  • Condurre periodicamente un ciclo di ‘Active Hope: (a) vedere con lucidità i dati ambientali/sociali/economici, (b) dichiarare cosa scegliamo di sostenere, (c) lanciare tre micro-svolte sostenibili da cominciare a realizzare subito.
  • Allenare la triade di Snyder: Goal: “Qual è l’esito desiderato tra 3 mesi, concreto e misurabile?”, Pathways: generare almeno 5 vie diverse (A/B/Z), Agency: primo passo entro 72 ore + supporti necessari.

Una piccola ‘palestra di speranza’ che trasforma l’energia in passi concreti realizzabili.

  • Raccontare storie di ‘utopia concreta’: casi interni dove piccoli gesti hanno cambiato pratiche (es. filiere più giuste, processi meno energivori).

La narrativa consolida la ‘memoria del possibile’.

Alcuni ostacoli ricorrenti e come attraversarli

All’interno delle organizzazioni, in questo cammino possibile di co-costruzione e di allenamento della speranza come azione collettiva, possiamo incontrare certamente degli ostacoli.

Parlano con la voce del cinismo e dell’inerzia e possono essere superati con energia, impegno e… speranza attiva. Ecco i principali ostacoli e i loro rimedi.

  • Ottimismo infondato: “andrà bene perché sì”. Rimedio: criteri di realtà + esperimenti rapidi + apprendimento condiviso dagli errori.
  • Utopia astratta: grandi visioni senza cammino. Rimedio: spezzare in tappe con risorse e responsabilità; misurare la ‘prossimità al possibile’.
  • Stanchezza morale: “abbiamo già provato”. Rimedio: riattivare l’agency con piccoli successi verificabili; ruotare i ruoli di guida.
  • Calo di fiducia nel dialogo: conversazioni che non cambiano nulla. Rimedio: decisioni con ‘tracciabilità deliberativa’ (cosa è stato ascoltato, cosa è cambiato, perché).

Una sintesi

Sperare non è attendere. È progettare.

È un modo di abitare il tempo, di riconoscere nel presente la traccia di ciò che può diventare.

Come scrive Bloch, la speranza è ciò che rende umano l’uomo.

Come suggerisce Goethe, cominciando ad agire muoviamo ciò che può accadere.

Come ci insegna Joanna Macy, coltivare la speranza attiva significa diventare partecipi nel realizzare ciò che più vogliamo.

La speranza attiva è una pratica, è una cosa che si ‘fa’ più che una cosa che si ‘ha’.

Sperare è dunque un verbo — un’azione anticipatrice che tiene aperto il futuro, anche quando tutto sembra chiuso.

E ogni volta che un gruppo, un’impresa, una comunità sceglie di agire in nome di ciò che ancora non c’è ma potrebbe essere, la speranza prende corpo.

Diventa concreta. Diventa reale.