Inclusività è meglio di inclusione

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La politica, nella sua essenza più alta, dovrebbe essere lo spazio in cui una comunità immagina il proprio futuro.

Oggi però questa capacità sembra indebolita, mentre le persone continuano ad avere desideri, visioni e intuizioni che chiedono soltanto luoghi in cui emergere.

In un percorso comunitario avviato nel quartiere, la parola che è risuonata con più forza è stata inclusione: non come slogan, ma come esperienza concreta e necessaria per rendere possibile giustizia, equità, pace e relazioni più umane.
Da qui è nata una distinzione fondamentale tra inclusione e inclusività, due movimenti diversi: la prima è un gesto, la seconda una cultura.

Un ambiente è inclusivo quando permette a ciascuno di respirare, contribuire, sentirsi parte senza dover trattenere nulla di sé.

Ma l’inclusività nasce prima di tutto da uno sguardo aperto, capace di accogliere e lasciarsi trasformare, radicato in una qualità profondamente politica: la curiosità.

Solo da sguardi curiosi può nascere la capacità collettiva di immaginare mondi nuovi e comunità in cui ogni persona possa trovare posto.

In teoria, la politica dovrebbe essere il luogo in cui una comunità immagina il proprio futuro.

Dovrebbe offrirci parole, immagini, orizzonti verso cui tendere; dovrebbe aiutarci a vedere ciò che ancora non esiste, ma che potremmo costruire insieme. La politica, nel suo senso più alto, è una pratica di immaginazione collettiva: un esercizio di visione e di speranza.

Eppure, oggi questa capacità – che è anche una finalità – sembra essersi assottigliata fin quasi a scomparire. Le cronache riempiono il presente di urgenze, la comunicazione politica si concentra sul breve termine, e la nostra immaginazione pubblica si restringe. Si parla di problemi da contenere più che di possibilità da aprire; di difese da innalzare più che di mondi da generare.

Così, per molte persone, il futuro appare più come un luogo da temere che come uno spazio in cui proiettare desideri.

Ma quando si apre uno spazio di desiderio, scopriamo che, sebbene talvolta un po’ rattrappiti, sappiamo ancora immaginare.

Le persone hanno visioni, speranze, intuizioni su ciò che potrebbe essere diverso, più giusto, più umano. Serve ‘solo’ offrire un luogo in cui queste visioni possano emergere, essere condivise e riconosciute.

È da questa esigenza di restituire alla politica, anche solo per poco e in una piccola dimensione, la sua funzione più generativa – in senso quotidiano e comunitario – che è nato il percorso che abbiamo contribuito ad avviare nel nostro quartiere.

Non sappiamo dove ci porterà ma, come chi legge e ci conosce forse sa, crediamo profondamente che "la strada si fa camminando", come scriveva nei suoi versi meravigliosi il poeta spagnolo Antonio Machado:

“Viandante, sono le tue impronte

il cammino e nulla più;

Viandante non c'è un cammino

la via si fa con l'andare...”

Durante un momento di festa, quindi, abbiamo invitato le persone a completare una frase semplice: «Vorrei vivere in un mondo in cui…». Un muro bianco, dei pennarelli colorati e la libertà di immaginare. Ne sono nate parole semplici, immediate, istintive.

Quando abbiamo riletto, una dopo l’altra, tutte le frasi lasciate dagli ospiti è affiorato qualcosa di molto coerente: la maggior parte parlava di giustizia ed equità sociale, pace, lavoro, relazioni più umane. Molte parlavano di inclusione, non come concetto astratto, ma come esperienza desiderata.

Nel piccolo cerchio riflessivo e dialogico che abbiamo formato, ci siamo dunque fermati su questa parola: inclusione.

Rileggendo e cercando di collegare le frasi scritte sul muro, abbiamo capito che l’inclusione non è solo un valore tra tanti: è la chiave che rende possibili gli altri.

Senza inclusione non c’è relazione, perché restiamo chiusi nei nostri confini.

Senza inclusione non ci sono giustizia ed equità e neanche lavoro, per tutti, perché qualcuno resta inevitabilmente ai margini.

Senza inclusione non c’è pace, perché dove ci sono esclusi nascono conflitti, risentimenti, ferite.

Questa consapevolezza ci ha portato ad alcune domande preliminari: che cosa intendiamo quando parliamo di inclusione? O meglio, di inclusività? E cosa cambia se mettiamo la nostra attenzione sull’inclusione o, invece, sull’inclusività?

Perché, sebbene spesso le usiamo come sinonimi, raccontano due movimenti diversi:

inclusione descrive un esito, un fatto: qualcuno viene accolto, o non lo è;

inclusività designa un’attitudine, una qualità del contesto, un modo di essere e di fare che permette a ciascuno di sentirsi parte.

Per non restare sul piano teorico, ci siamo chiesti qualcosa di molto più concreto e diretto: Quando un ambiente, per me, è inclusivo?

Ed è da qui che sono emersi elementi preziosi, quasi sempre legati a esperienze corporee e relazionali: sentirsi visti, sentirsi ascoltati senza essere giudicati; sentire che il proprio contributo ha spazio; percepire che il linguaggio, i gesti, l’organizzazione delle attività non danno per scontato un modello unico di normalità; sapere che c’è attenzione alle differenze, non per catalogarle, ma per accoglierle.

Da questo punto di partenza, profondamente umano, abbiamo aperto la conversazione: non da definizioni astratte, ma dalle condizioni che permettono a ciascuno di sentirsi parte.

Abbiamo, quindi, esplorato perché parlare di inclusione e parlare di inclusività non è la stessa cosa.

Sono parole vicine, certo, ma raccontano due dinamiche molto diverse.

Inclusione è un gesto rivolto verso qualcuno: implica che esista un ‘dentro’ e un ‘fuori’, e che chi sta dentro decida di accogliere chi sta fuori.

È un movimento che presuppone una soglia.

È importante, è necessaria, a volte è persino urgente. Ma porta con sé un rischio: quello di collocare il potere decisionale sempre dalla parte di chi apre la porta.

In questo senso, l’inclusione descrive un risultato: qualcuno è stato ammesso, è stato considerato, è stato accolto. È un passo decisivo, ma non è ancora la trasformazione del contesto.

Inclusività, invece, è una qualità del sistema.

Non riguarda un gesto puntuale, ma il modo in cui un ambiente è costruito, organizzato, immaginato.

Non nasce quando qualcuno arriva, ma prima; non si attiva in risposta a una domanda, ma è già presente come possibilità concreta per chiunque entri.

Un contesto inclusivo non deve ‘fare spazio’: lo ha già fatto.

Non deve correggersi: è progettato fin dall’inizio perché diversi modi di essere possano convivere.

Non accoglie 'nonostante le differenze', ma grazie alle differenze.

L’inclusività, in altre parole, è strutturale: non dipende dalla buona volontà di qualcuno ma dalla forma stessa dell’ambiente, da linguaggi, pratiche, regole, abitudini, modalità di partecipazione, tempi, gestione dei conflitti, distribuzione delle opportunità, accessibilità fisica e simbolica.

Se l’inclusione è un invito, l’inclusività è una condizione.

Se l’inclusione è un gesto, l’inclusività è una cultura.

Se l’inclusione risponde a un bisogno, l’inclusività lo previene.

E soprattutto: mentre l’inclusione continua, in fondo, a definire un 'centro' che magnanimamente apre ai margini, l’inclusività trasforma il centro stesso.

Lo decentra, lo rende plurale, permeabile, dinamico.

Non chiede alle persone di adattarsi, ma chiede all’ambiente di essere abbastanza ampio e flessibile da accoglierle nella loro interezza.

Per questo, quando abbiamo provato a rispondere alla domanda "Quando un ambiente, per me, è inclusivo?", sono emersi elementi concreti, vissuti, legati alla qualità dell’esperienza più che a definizioni teoriche.

Un ambiente è percepito come inclusivo, innanzitutto, quando ci si sente bene: non un benessere generico, ma quella sensazione precisa di poter respirare, di non dover trattenere parti di sé, di poter portare il proprio meglio senza paura di essere giudicati.

Le persone hanno parlato di accoglienza autentica: un luogo in cui si può essere ascoltati davvero, non sopportati o tollerati; un luogo in cui si sente che ciò che diciamo e ciò che siamo viene preso in considerazione.

Inclusivo è uno spazio in cui tutti trovano un posto, in cui ciascuno percepisce di avere una chance reale di partecipare, di contribuire, di contare.

Dove non ci sono 'ruoli fissi' che gerarchizzano chi ha diritto di parola e chi no, ma una sensazione condivisa di stare sullo stesso piano, almeno per ciò che riguarda la dignità dell’esperienza e del pensiero.

Molti hanno parlato della possibilità di sentirsi parte: non solo presenti fisicamente, ma coinvolti, riconosciuti come membri legittimi di quella comunità o situazione.

E questo coinvolgimento è possibile solo quando le differenze sono accolte, non come problemi da gestire, ma come ricchezze che ampliano lo sguardo collettivo.

È interessante che sia emersa anche la parola tolleranza: un termine che sembra positivo, ma che porta con sé un’ambiguità profonda. Tollerare, infatti, implica sopportare qualcosa che, in fondo, non si approva.

Un ambiente inclusivo non chiede tolleranza, ma rispetto: la capacità di considerare la realtà e il pensiero degli altri come legittimi e degni di essere ascoltati.

Andando avanti nel confronto abbiamo riconosciuto che esistono due livelli dell’inclusività.

Uno è personale: riguarda le relazioni, i gesti, il linguaggio, il modo in cui ci ascoltiamo e ci diamo spazio.

L’altro è politico: riguarda le condizioni che permettono a tutti di partecipare davvero ossia le regole, i processi decisionali, l'accesso all’informazione, le forme di comunicazione.

L’inclusione non è solo un fatto di sensibilità individuale: è anche una questione strutturale, di possibilità concrete.

E forse la definizione più semplice, emersa quasi per caso, è anche la più potente: inclusione è l’assenza di esclusione.

Un ambiente è inclusivo quando nessuna persona viene esclusa, neanche involontariamente, neanche inconsapevolmente.

Quando tutte possono partecipare, quando nessuna viene lasciata fuori — né simbolicamente né materialmente — allora non solo ciascuna persona sta meglio, ma la comunità intera si arricchisce.

E ancora, nell’esplorare cosa renda un ambiente inclusivo, ci siamo accorti che, prima ancora di parlare di pratiche, di regole o di strumenti, dobbiamo interrogarci sul modo in cui guardiamo.

Perché l’inclusività non è un insieme di azioni che si aggiungono a ciò che già facciamo: è il risultato di uno sguardo che si allarga, si ammorbidisce, si decentra.

Se lo sguardo rimane rigido, chiuso o difensivo, nessuna procedura potrà renderci davvero inclusivi.

Il primo presupposto dell’inclusività, dunque, è un movimento interiore.

È la capacità di coltivare uno sguardo originariamente aperto, capace di restare aperto nel tempo.

Uno sguardo che ha la forza di non ridurre l’altro a ciò che già sappiamo, che rinuncia alla tentazione della semplificazione immediata, che resiste ai giudizi rapidi e alle etichette.

Uno sguardo che, per sua natura, rimane poroso: accoglie, lascia entrare, si lascia modificare.

Ma come si fa ad avere uno sguardo così? Da dove nasce questa disponibilità?

Questa origine l’abbiamo riconosciuta nella curiosità.

Quando siamo curiosi, il nostro sguardo si dilata spontaneamente.

La curiosità ci porta fuori dalle nostre certezze, ci fa attraversare i confini del già noto, ci apre alla possibilità che l’altro sia una scoperta da fare piuttosto che un interrogativo da risolvere.

La curiosità è profondamente inclusiva perché disattiva il meccanismo della paura — non c’è bisogno di difendersi da ciò che si desidera conoscere — e trasforma la differenza da minaccia in occasione di ampliamento.

Per questo ci siamo lasciati con una domanda che è personale e anche profondamente politica:

"Che cosa mi rende curioso?"

"Quali condizioni, quali incontri, quali esperienze aprono il mio sguardo invece di chiuderlo?"

"Che cosa accade in me quando la presenza dell’altro, invece di farmi restringere, mi fa espandere?"

Sono domande intime, certo, ma la loro portata è collettiva.

L’inclusività non è solo un tratto del carattere: è una scelta di mondo.

È una forma di politica quotidiana che si esercita negli spazi che abitiamo, nelle relazioni che costruiamo, nei modi in cui decidiamo di far esistere — o non esistere — gli altri insieme a noi.

Modi che si devono tradurre in programmi elettorali ma che saranno realizzabili solo se nascono ‘da dentro’ le persone che quei programmi chiedono e scrivono.

L’inclusività non è un gesto condiscendente verso chi è ai margini: è la trasformazione dei margini stessi, è il ridisegno del centro.

È la capacità di immaginare comunità che non crescono per assimilazione — chiedendo a ciascuno di diventare simile agli altri — ma per amplificazione, nelle quali le differenze non vengono limate, ma intrecciate per generare possibilità nuove.

Se la politica ha il compito di aiutarci a vedere un futuro desiderabile, allora l’inclusività è la condizione che rende quel futuro credibile.

Solo uno sguardo aperto può vedere ciò che ancora non c’è.

Solo la curiosità può dare alla politica — e alle comunità — la capacità di immaginare mondi in cui tutte le persone possano davvero trovare posto.

Forse, allora, la politica che ci serve oggi dovrebbe essere fatta di proposte e programmi che nascono dagli sguardi.

Dagli sguardi che includono, che cercano, che si lasciano toccare.

Dagli sguardi che hanno ancora il coraggio di essere curiosi.

Dagli sguardi che riconoscono nell’incontro con l’altro l’inizio di ogni trasformazione possibile.

È da qui che può ripartire il nostro cammino, da ciò che siamo disposti a vedere e conoscere oltre ciò che vediamo e sappiamo già.