C’è qualcosa di profondamente radicato nella nostra cultura occidentale che guarda con sospetto a ciò che non produce, non risolve, non accelera.
È il retaggio di una visione del mondo che ha separato il sapere dall’essere, la teoria dalla pratica, la riflessione dall’azione, e ha progressivamente marginalizzato ogni forma di conoscenza che non si potesse tradurre in potere o profitto.
Eppure, tutto ciò che ha cambiato profondamente la storia del pensiero umano è nato da un gesto apparentemente inutile.
In un’epoca che monetizza ogni aspetto dell’esperienza, è urgente reclamare uno spazio per ciò che che non 'serve' e per ciò che non ha prezzo.
“Non si tratta di voler stupidamente sfuggire all’utile, ancor meno di negare la fatalità che dà sempre a esso l’ultima parola [ma si tratta di fare spazio alla] possibilità di vedere apparire quel che seduce, ciò che sfugge nell’istante dell’apparire alla necessità di rispondere all’utile” questa citazione dai testi di Georges Bataille dà bene il senso della riflessione che voglio proporre.
C’è, infatti, una domanda, nascosta tra le pieghe dell’apparente buonsenso, che ci poniamo troppo spesso: "A cosa serve"?
È la domanda che ogni giorno stronca sogni, soffoca entusiasmi, disinnesca la curiosità.
Ce lo chiediamo davanti a un quadro astratto, percorrendo i corridoi silenziosi di un museo o di una biblioteca, mentre ascoltiamo un brano musicale o una poesia, assistiamo a uno spettacolo teatrale o a un film, che non pretendono di spiegare nulla, ma solo di esserci, come l’odore del mare o della pioggia.
È la domanda che perseguita l’arte, la filosofia, la letteratura, il teatro, il cinema, la bellezza stessa: “A cosa servono?”
Ci siamo abituati a vivere in un mondo che esalta l’efficienza, la produttività, la rapidità dei risultati. Ogni cosa dev’essere funzionale, misurabile, orientata all’utile.
Ma cosa succede se ci fermiamo per un istante e rovesciamo la prospettiva? Se tutto ciò che è ‘utile’ scompare, cosa resta?
E, viceversa, se tutto ciò che è ‘inutile’ venisse abolito, cosa ne sarebbe di noi?
Il sospetto dell’inutile
C’è qualcosa di profondamente radicato nella nostra cultura occidentale che guarda con sospetto a ciò che non produce, non risolve, non accelera.
È il retaggio di una visione del mondo che ha separato il sapere dall’essere, la teoria dalla pratica, la riflessione dall’azione, e ha progressivamente marginalizzato ogni forma di conoscenza che non si potesse tradurre in potere o profitto.
In questa logica, le discipline umanistiche sono tollerate solo se funzionali: la filosofia serve se aiuta a fare business etico, l’arte se attira turisti, la letteratura se stimola il pensiero critico (ma senza esagerare), il teatro e il cinema se aiutano a svagarsi. L’utile è diventato il metro principale dell’esistenza.
Ma non è sempre stato così. Le antiche culture sapevano che ciò che rende umana la vita non è solo ciò che ci fa sopravvivere, ma ciò che ci fa fiorire.
Il canto, il racconto, la contemplazione, la festa, la danza, la pittura sulle pareti delle caverne – nessuna di queste attività era ‘utile’ nel senso moderno. Eppure, erano necessarie.
La bellezza come resistenza
La bellezza non serve a niente. Non si mangia, non si vende facilmente, non si inserisce in un foglio Excel. Eppure – ci basta un tramonto, una sonata di Bach, una poesia di Rilke per sentirci attraversati da qualcosa che ci risveglia. Ciò che non serve a niente spesso ci salva.
Contemplare il bello è un atto gratuito, e proprio per questo sovversivo. In un mondo ossessionato dal controllo, dalla produzione, dal risultato, fermarsi a guardare un’opera d’arte o leggere una poesia è un atto di resistenza. È dichiarare che il valore di qualcosa non sta nella sua funzione, ma nella sua intensità, nella sua capacità di toccarci, di aprirci uno spazio interiore.
Come scrive Nuccio Ordine nel suo manifesto "L’utilità dell’inutile", non è la produttività immediata a conferire valore al sapere e all’arte, ma la loro capacità di coltivare la libertà del pensiero, la bellezza, l’etica e la profondità esistenziale.
L’inutile è fecondo
Tutto ciò che ha cambiato profondamente la storia del pensiero umano è nato da un gesto apparentemente inutile.
Platone fonda l’Accademia per pensare, non per produrre, Montaigne scrive i suoi Saggi per conoscere se stesso, non per venderli a qualcuno. Van Gogh dipinge i suoi girasoli in un posto senza tempo e senza senso come un manicomio. Emily Dickinson scrive centinaia di poesie e le chiude in un cassetto.
Eppure, da questi gesti gratuiti – marginali, a tratti invisibili – è scaturita una linfa che continua a nutrirci.
L’inutile è fecondo perché non ha scopo, ma ha senso. E il senso è ciò che ci manca, quando tutto è orientato allo scopo.
Fare spazio al gratuito
In un’epoca che monetizza ogni aspetto dell’esperienza, è urgente reclamare uno spazio per ciò che non ha prezzo.
Leggere un romanzo per il solo gusto di perdersi in un mondo. Ascoltare musica senza far altro. Dipingere, scrivere, creare, senza pensare a un pubblico. Dialogare senza l’obiettivo di trovare una verità. Camminare senza meta.
Non si tratta di fuggire dalla realtà, ma di abitarla più pienamente. Di tornare a uno sguardo contemplativo, lento, sensibile.
Di ricordare che non siamo macchine da produzione, ma esseri desideranti, capaci di meraviglia.
La filosofia come pratica dell’inutile (e quindi del necessario)
Anche la filosofia, da sempre sospettata di essere una perdita di tempo, è una di queste attività ‘inutili’. Eppure – o proprio per questo – continua a interrogarci, a scardinare le nostre certezze, a renderci inquieti e vivi.
Come scriveva Hannah Arendt in "La vita della mente": “Potrebbe l’attività del pensare come tale, l’abitudine di esaminare tutto ciò a cui accade di verificarsi o di attirare l’attenzione, indipendentemente dai risultati e dal contenuto specifico, potrebbe quest’attività rientrare tra le condizioni che inducono gli uomini ad astenersi dal fare il male, o perfino li 'dispongono' contro di esso?”
Proprio il pensare – questo gesto silenzioso, improduttivo, apparentemente ozioso –potrebbe costituire l’antidoto alla banalità del male.
Pensare è inutile. Ma non pensare è pericoloso.
Una domanda per noi
Allora, che ne sarebbe della nostra vita se la privassimo di tutto ciò che non serve a nulla?
Che ne sarebbe della nostra umanità, se riducessimo ogni scelta alla sua funzione?
Potremmo ancora dirci vivi, se vivessimo solo per funzionare?
Scrive Albert Camus nell’Introduzione a "L’uomo in rivolta": “Se l’uomo si limita a essere il produttore, il consumatore, il creatore di ricchezza, senza cercare altro, rischia di perdere tutto ciò che lo distingue dall’oggetto e di ridursi a una mera funzione nel sistema”. E ancora in "Mito di Sisifo": “In un mondo senza significato, l’uomo cerca disperatamente un senso che dia un valore all’esistenza. Ridurre l’uomo a un ruolo funzionale significa condannarlo all’assurdo”.
Forse è tempo di invertire lo sguardo. Di smettere di chiederci se la poesia serve, e iniziare a domandarci se siamo ancora capaci di riceverla.
Se siamo ancora capaci di stupirci, di fermarci, di sentire.
Forse è tempo di rieducarci alla meraviglia. Di accogliere l’inutile come un nutrimento dell’anima, come un atto di libertà.
Perché, in fondo, è proprio ciò che non serve a nulla che ci ricorda chi siamo.
E forse, proprio lì, in quel gesto disarmato e gratuito, può nascere il mondo nuovo.
Una pratica ‘inutile’ per allenarsi: il “diario delle meraviglie inutili”
Cos’è?
Anche approfittando di un breve periodo di vacanza - che sicuramente ci può meglio predisporre – il mio invito è di tenere, per una settimana, un diario dedicato esclusivamente all’osservazione e alla registrazione di ‘meraviglie inutili’.
Si tratta di tutto ciò che, nella routine quotidiana, non ha uno scopo pratico, produttivo o misurabile: colori che si incrociano in una pozzanghera, la sagoma delle nuvole, una frase ascoltata per caso, la disposizione casuale di oggetti su un tavolo, lo scintillio della luce sul mare, un accostamento poetico di parole.
Come funziona?
Ogni giorno dedica cinque minuti (ma anche meno!) ad annotare, a parole o con un disegno, una cosa bella, sorprendente, evocativa, assolutamente superflua che hai notato attorno a te.
Non devono essere pensieri profondi: vanno bene anche semplici constatazioni, giochi visivi, suoni, frammenti di conversazione senza scopo.
Puoi inserire fotografie, collage, disegni, pezzi di carta raccolti per strada, parole udite da qualcuno, titoli di libri visti in una vetrina, odori, una melodia, persino il silenzio.
Perché farla?
Per esercitare lo 'sguardo poetico', capace di scoprire nel banale un senso nuovo e inatteso.
Per rallentare, rompere le abitudini percettive, uscire dalla logica del fare 'utile'.
Per ascoltare la parte gratuita, intuitiva, contemplativa del vivere, sperimentando una piccola forma di resistenza alla produttività a tutti i costi.
Per coltivare la meraviglia, che è sempre sovversiva e rigenerante.
E se vuoi una variante, ti propongo di condividere, se ti va, una meraviglia inutile al giorno con amici, colleghi, familiari, o sui social con un hashtag dedicato.
Alla fine della settimana, rileggi il diario: quali cose risaltano, quali emozioni sono emerse?
Cosa ti ha lasciato stupito o grato? Non si tratta, infatti, di scoprire qualcosa di grandioso, ma di ritrovare nel quotidiano quella dimensione di bellezza e 'gratuità' che rende la vita più leggera e umano il nostro sguardo sul mondo.
E anche una proposta di lettura
Come guida alla riscoperta del dono dell’inutilità, ti propongo anche la lettura proprio del prezioso piccolo libro che ho già citato “L’utilità dell’inutile” il Manifesto di Nuccio Ordine.
L’autore ci offre un’intensa e appassionata difesa di ciò che, nella società contemporanea, viene spesso relegato a un ruolo marginale o addirittura accusato di essere superfluo: la conoscenza umanistica, la filosofia, la letteratura, l’arte e la cultura in generale.
Ordine contesta la riduzione del sapere a mero strumento di profitto o utilità immediata, contrapponendo ad essa un manifesto che rilancia la necessità di un sapere “inutile” nel senso più alto e autentico del termine — cioè libero, disinteressato e capace di nutrire la nostra umanità.
L’autore ci accompagna in un viaggio attraverso le testimonianze di grandi scrittori e filosofi, da Platone a Dante, da Montaigne a Kant, passando per i classici della letteratura mondiale.
Questa ricca genealogia serve a dimostrare come la cultura umanistica abbia sempre rappresentato un presidio di libertà e di pensiero critico, opponendosi all’aridità del pragmatismo economico e all’imperativo del rendimento immediato.
Un manifesto contro la “schiavitù del calcolo” e il “delirio di onnipotenza del denaro”, denunciando la pericolosa deriva che vorrebbe comprimere la cultura in categorie produttivistiche.
In questa prospettiva, l’inutilità dichiarata del sapere umanistico è invece la sua forza, perché gli permette di “volare alto” oltre la logica della mera utilità economica, preservando l’integrità della ricerca e della creatività.
Non solo semplicemente un libro da leggere, ma un vero e proprio invito a ripensare il valore della cultura e del sapere, che non si misura esclusivamente in termini di profitto ma nella capacità di aprire orizzonti di senso, di coltivare la bellezza e di nutrire quella parte di umanità che solo la gratuità e la profondità della conoscenza possono garantire.