'Noi', il filo che ci tiene insieme

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In un tempo dominato dall’usa e getta – nelle cose come nei rapporti – riscoprire la pratica del rammendo può offrirci una chiave preziosa per pensare alla coesione tra le persone.

Questo articolo riflette sul valore dei legami quotidiani, sulla cura delle relazioni e sulla possibilità di riparare ciò che si è incrinato.

Un invito poetico e concreto a tessere, a restare, a custodire: perché il 'noi' è un filo che tiene insieme solo se ce ne prendiamo cura.

Immagina un tessuto prezioso, fatto di fili sottili e intrecciati con cura: ognuno di questi fili è una relazione, un gesto, un ascolto. Quella trama invisibile che tiene insieme la nostra vita quotidiana, che rende possibile provare senso di appartenenza e sentirsi profondamente e attivamente parte costitutiva di una comunità, è la coesione.

In un tempo che ci vuole veloci, performanti, sempre un po’ altrove, parlare di coesione può sembrare fuori luogo.

È una parola che richiama lentezza, reciprocità, continuità. Una parola che resiste, che si lascia ascoltare solo se le si fa spazio.

Non parliamo, qui, della coesione tra ruoli all’interno di una organizzazione. Ci spostiamo sul terreno più intimo e quotidiano delle relazioni che abitano la nostra vita: familiari, amicali, sociali. Quelle che ci tengono in piedi nei momenti di smarrimento. Quelle che danno senso ai nostri giorni, anche se a volte le trascuriamo.

Coesione è stare. È esserci. È prendersi a cuore.

La coesione non è mai un dato scontato, ma un processo vivo che richiede attenzione e cura costante.

È fatta di piccoli gesti, di ascolto autentico, di presenza reale.

Spesso la fatica della vita, le incomprensioni e le differenze mettono alla prova questa trama, rischiando di spezzarla.

La solitudine, quella sensazione di essere soli anche in mezzo agli altri, nasce proprio quando la coesione viene meno.

Per questo perseguire la coesione è anche un atto di cura verso se stessi e gli altri, un impegno a mantenere aperti i canali del rispetto e della fiducia, fondamentali per ogni relazione sana.

La coesione è una qualità che non si improvvisa: si costruisce con il tempo, l’attenzione, la cura.

Vive nelle azioni minute, nei dettagli che passano inosservati. Una parola detta al momento giusto. Un messaggio che rompe l’indifferenza. Un silenzio che accoglie senza giudizio. Una presenza, discreta e costante.

Coesione è anche scelta. A volte faticosa. Perché richiede di restare quando sarebbe più facile allontanarsi, di ricucire quando qualcosa si è strappato, di coltivare anche quando manca la voglia. Ma è in questa scelta che si rivela il valore del ‘noi’.

In molte culture, il filo è simbolo antico di connessione e destino.

Pensiamo alle Parche che filano la vita degli esseri umani, a Penelope che tesse di notte per ritardare l’inevitabile, ai tappeti delle comunità nomadi dove ogni nodo racconta una storia. Tessere, annodare, intrecciare: azioni umili e potenti, che parlano di coesione come opera quotidiana, come arte del vivere insieme.

La coesione come tessitura invisibile

Coesione, allora, come risultato di una tessitura costante, paziente e silenziosa.

Essa nasce dalla condivisione di valori, di obiettivi comuni, ma anche dal riconoscimento delle differenze e dalla capacità di accoglierle senza escludere. 

È un collante sociale che riduce disparità e disuguaglianze, rafforzando i legami e la partecipazione.

Coesione come equilibrio delicato tra il rispetto dell’unicità di ciascuno e la volontà di stare insieme, un lavoro invisibile ma indispensabile per il benessere collettivo e personale.

In un mondo che ci allena a separarci, a semplificare, a diffidare, coltivare coesione diventa un atto poetico e politico.

Un’azione generativa che costruisce comunità e rigenera fiducia. 

Filo invisibile che ci collega anche quando la distanza sembra prevalere. E' sottile, può spezzarsi. Ma, proprio per questo, può anche essere riannodato.

Rammendare legami, custodire relazioni, coltivare coesione

C’è stato un tempo in cui i vestiti non si buttavano. Nessuno li buttava, neanche chi era benestante e avrebbe potuto permettersi di sostituirli senza scrupoli. Si rattoppavano, si rammendavano, si facevano durare.

Ogni cucitura aveva una storia, ogni filo era un gesto di cura.

Le mani sapevano come recuperare uno strappo, come ricucire una fenditura, come rendere di nuovo portabile qualcosa che sembrava perduto.

Il rammendo era parte della vita. Una forma umile e concreta di attenzione, pazienza, amore.

Oggi, in un mondo che ha fatto dell’usa e getta una modalità dominante, non rammendiamo quasi più. Né i vestiti, né i rapporti.

Quando qualcosa si rompe, si cambia. Quando una relazione si incrina, si evita. Quando un legame si logora, si lascia andare.

La frattura diventa fine, anziché inizio di un gesto di riparazione.

Eppure, la coesione nelle nostre vite nasce proprio qui: nella volontà e nella capacità di rammendare. Di riprendere in mano un filo spezzato. Di trovare un nuovo punto di contatto. Di riconoscere che l’imperfezione non è una colpa, ma una possibilità di bellezza.

Rammendare è un gesto che si oppone all’idea di perfezione, all’estetica levigata del nuovo.

È un atto di umiltà, di frugalità, di resistenza. Come nel kintsugi giapponese, che mette in risalto le crepe riempiendole d’oro, anche i rapporti possono diventare più belli e forti proprio dove sono stati feriti.

Serve tempo. Serve cura. Serve volontà. Ma è così che si tesse la coesione: non sulla base della perfezione, ma sulla fiducia nella possibilità di restare.

E allora, forse, possiamo immaginare la coesione come una pratica artigianale.

Qualcosa che si costruisce nel tempo, con dedizione e tenacia. Non un dato acquisito, ma una possibilità da rinnovare ogni giorno.

Nelle relazioni familiari, nelle amicizie, nelle comunità che abitiamo. Anche dove ci sentiamo stanchi, delusi, distanti. Anche dove ci sembra che non valga più la pena.

Rammendare è un atto di responsabilità affettiva.

Significa prendersi cura del legame, non solo dell’altro.

Significa scegliere di abitare l’incompiutezza, il conflitto, la fatica. Ma anche la tenerezza che nasce quando si resta, quando si tende la mano, quando si decide che vale la pena di cucire.

In un tempo in cui tutto invita a consumare e sostituire, rammendare è un gesto sovversivo.

Un’azione di sostenibilità relazionale. Un modo per opporsi alla cultura dello scarto, che riguarda tanto le cose quanto le persone.

Una buona notizia e una pratica semplice

Rammendare è ancora possibile. Non è un atto nostalgico, ma un gesto potente. Un modo per affermare che “questo legame conta, anche se è imperfetto”.

Tessere, annodare, intrecciare: gesti che richiedono lentezza e dedizione.

E così, giorno dopo giorno, possiamo rammendare anche noi: con parole, attenzioni, ascolto.

Non per aggiustare tutto, ma per tenere insieme ciò che conta.

Pensa a una relazione importante per te. Una che si è un po’ allentata, o che senti preziosa ma fragile.

Dedicale un piccolo gesto gratuito: una parola, una telefonata, un invito. Non per ottenere qualcosa, ma per tessere.

E se vuoi, fallo anche con le mani. Prendi ago e filo e rammenda un indumento che ami. Fallo come gesto simbolico. Come atto di presenza. Come modo per ricordarti che la coesione si costruisce. E si custodisce.

Scrive Paul Ricoeur in “Sé come un altro”: “La relazione è sempre fragile. Ma è nella volontà di continuare a raccontarsi insieme che si costruisce una narrazione condivisa, capace di dare senso alle ferite” .

Rammendare, allora, non è solo una pratica artigianale: è un gesto etico, un atto narrativo, una forma di speranza. Perché insieme non è solo una condizione: è una scelta, un esercizio, un’arte da coltivare.

Nota a margine

A rammendare me lo ha insegnato mia nonna.

Faceva dei rammendi bellissimi, sembravano ricami delicati con dei punti quasi invisibili. Il filo giusto e un andare avanti e indietro stretto stretto ma morbido e poi da un lato all’altro. Intercettando pazientemente i fili dell’ordito, ricostruire la trama, lentamente con pazienza, sapienza e amore.

E spesso faceva la stessa cosa quando in famiglia si apriva uno strappo.

Oggi forse non abbiamo più nonne che ci tramandano arti antiche ma su You Tube e sugli altri social ci sono tante persone generose che condividono le loro tecniche.

Questo video che ho trovato illustra molto bene il lavoro del rammendo così come ho imparato a farlo tanto tempo fa.

Provaci, senza fretta e senza aspettative di performance. È un’arte antica lenta che richiede tempo, umiltà e presenza. Una meditazione, in fondo.