Essere: una parola che sembra lontana. Eppure attraversa ogni nostra giornata.
“Essere se stessi”, “essere in crisi”, “essere presenti”… Ma che significa davvero 'Essere'?
In questo articolo ripercorriamo la storia di questa domanda, da Parmenide a François Jullien, passando per Spinoza, Heidegger, Levinas, Sartre, e le voci femministe di Luce Irigaray e Judith Butler.
Non per mero amore del concetto, ma per guardare alla vita: a come stiamo nel mondo, a come ci relazioniamo, a come possiamo scegliere.
C'è una parola che attraversa tutta la filosofia occidentale come un'eco che non smette mai di chiamare: 'Essere'.
Una parola solenne, a volte persino ingombrante. Ma anche una parola che, se ascoltata senza paura, ci mette a nudo.
Perché in fondo ogni volta che ci domandiamo cosa ci stiamo a fare qui, cosa conta davvero, che senso ha vivere, amare, scegliere, stiamo toccando, senza saperlo, la questione dell'Essere.
Non è solo una questione da filosofi. È un'urgenza umana. E oggi, forse più che mai, torna a farsi sentire.
In un tempo che spesso ci spinge solo a fare, a produrre, a performare, a rimanere sulla superficie delle cose, la domanda sull'Essere può sembrarci astratta, antica, lontana. E invece è forse la più concreta di tutte.
Perché ci riguarda nella carne: nel nostro modo di stare al mondo, nelle relazioni, nelle scelte politiche, nei gesti quotidiani. Nell'accettare la vita, o nell'evitare di viverla davvero.
Ma che cos'è, l'Essere?
Proviamo a esplorare questa domanda con un breve cammino tra le idee di alcuni dei filosofi che si sono appassionati alla questione, idee vive che ci toccano e ci spingono a rivedere come abitiamo il mondo.
Perché la questione dell'Essere non è solo metafisica: è esistenziale, relazionale, politica.
E in un tempo come il nostro — confuso, interconnesso, fragile — può diventare anche una bussola.
L’Essere è, il non-Essere non è
Quando Parmenide scrive — o meglio, canta — il suo poema filosofico, non sta semplicemente fondando la metafisica occidentale: sta ponendo una frattura.
Una frattura tra ciò che è e ciò che non è, tra il pensiero e l’illusione, tra il cammino della verità e quello dell’opinione.
Il suo celebre enunciato - "l’Essere è, il non-Essere non è" - suona come un assoluto. Ma è anche un atto poetico e visionario, che tenta di affermare un fondamento stabile contro l’instabilità del divenire.
Nel pensiero di Parmenide, l’Essere è uno, eterno, immobile, uguale a se stesso. Non nasce, non muore, non cambia. Non ha bisogno di nulla, non manca di nulla.
Tutto ciò che muta, nasce o scompare, è solo apparenza, inganno dei sensi, illusione della doxa. Solo la ragione può cogliere ciò che è davvero.
E ciò che non è - il Nulla - non può nemmeno essere pensato, nominato, evocato. Non esiste. Punto.
Ma questa affermazione così radicale, che inaugura il pensiero occidentale, porta con sé una conseguenza potentissima e forse ambigua: ciò che esiste deve essere pieno, stabile, identico, autosufficiente.
Ogni mancanza, alterità, differenza viene ricacciata nel non-Essere.
Ed è così che, fin dall’inizio, il pensiero dell’Essere si intreccia con un’esclusione: ciò che non corrisponde a questa pienezza viene escluso, svalutato, rimosso.
Essere è Natura - Spinoza
Con Spinoza, la questione dell’Essere prende una direzione radicalmente diversa rispetto a quella tracciata da Parmenide e, più in generale, dalla tradizione teologica e metafisica occidentale.
Spinoza non parla dell’Essere in astratto: lo chiama "Deus sive Natura" - Dio ossia Natura.
E con questa formula disinnesca, in un solo colpo, la trascendenza di Dio e la separazione tra spirito e materia, mente e corpo, soggetto e oggetto.
L’Essere, per Spinoza, è l’unica sostanza che esiste, ed è infinita. Tutto ciò che esiste è in essa, è una sua espressione, un suo modo.
L’Essere, dunque, non è un principio immobile e separato dal mondo: è il mondo stesso, nella sua infinita varietà, nella sua necessità e nella sua libertà.
Tutto ciò che esiste è in Dio/Natura e segue da essa con la stessa necessità con cui da una definizione geometrica seguono le sue conseguenze. Non c’è spazio per il caso, per il vuoto, per l’arbitrarietà.
Ma questo non significa che l’esistenza sia rigida: al contrario, Spinoza apre una via per pensare la libertà all’interno della necessità, come comprensione profonda della propria natura e del proprio posto nell’ordine dell’Essere.
La conseguenza più profonda di questa visione è che non esiste un dualismo ontologico tra ciò che è e ciò che non è, tra ciò che vale e ciò che è secondario. Tutto è parte della medesima realtà.
E quindi ogni corpo, ogni idea, ogni affetto ha il diritto di esistere. Non ci sono gradi di essere, ma differenze di potenza, di capacità di esprimere se stessi, di agire e comprendere.
L’Essere dimenticato e il compito del pensare - Heidegger
Con Martin Heidegger, filosofo tedesco del '900, la filosofia occidentale fa un passo indietro. O forse sarebbe meglio dire: fa un passo indietro verso l’origine.
Perché secondo lui, la nostra tradizione ha dimenticato qualcosa di essenziale. Ha dimenticato l’Essere.
Non nel senso che non ne abbia parlato — anzi, ne ha parlato in continuazione — ma lo ha trasformato in un oggetto, in una sostanza, in una cosa tra le cose. E così ha finito per confondere l’essere con l’ente, ovvero con ciò che è, perdendo di vista la domanda più radicale: che significa che qualcosa è?
Heidegger chiama questa dimenticanza “oblio dell’Essere” e la considera l’errore originario della metafisica occidentale, da Platone in poi.
L’Essere non è una cosa, ma una soglia. Qualcosa che non possiamo possedere, ma solo ascoltare, lasciar emergere. E per farlo, dobbiamo cambiare sguardo, cambiare linguaggio, cambiare modo di pensare.
Non si tratta più di spiegare l’Essere, ma di lasciarlo essere, di interrogarlo, di custodirne il mistero.
L’Essere non è un concetto da maneggiare, ma qualcosa che si rivela nel nostro modo di stare al mondo, nel nostro essere nel tempo, nella nostra apertura finita all’orizzonte del senso.
E l’esistenza autentica comincia proprio quando smettiamo di fuggire la nostra finitudine e ci apriamo alla possibilità del Nulla.
Il Nulla non è la negazione dell’Essere, ma il suo compagno invisibile, il suo risvolto segreto.
Essere e Nulla, libertà e vertigine - Sartre
Jean-Paul Sartre entra nella questione dell’Essere da una porta tutta sua. Legge Heidegger, ma non si ferma alla meditazione sull’Essere come apertura o evento: lo porta sul terreno esistenziale più tagliente, là dove l’essere umano, nel suo stesso essere, si scopre condannato alla libertà.
E così Sartre prende l’eredità dell’ontologia occidentale e la rovescia, facendone una sfida radicale alla nostra coscienza di soggetti.
Nel suo grande trattato filosofico, "L’Essere e il Nulla", Sartre distingue due modi fondamentali dell’essere: l’essere-in-sé (l’en-soi) e l’essere-per-sé (le pour-soi).
L’essere-in-sé è il modo d’essere delle cose: pieno, compatto, identico a se stesso. Non ha bisogno di giustificazioni, semplicemente è.
L’essere-per-sé, invece, è il modo d’essere della coscienza umana: mancante, incompleto, sempre in relazione a ciò che non è ancora.
Il Nulla, in Sartre, non è una mancanza da colmare, ma la condizione stessa della libertà.
Noi siamo nulla — nel senso che non siamo mai del tutto qualcosa — e proprio per questo possiamo scegliere, agire, creare.
Ma questa libertà assoluta, questa assenza di un’essenza data, è anche fonte di angoscia: siamo condannati a essere liberi. E ogni scelta, anche quella di non scegliere, è una forma di impegno.
Questa filosofia dell’Essere come Nulla e libertà ha risvolti esistenziali e politici potentissimi. Perché, se nulla ci definisce a priori, allora siamo responsabili del mondo che creiamo.
Non possiamo più dire “è così che stanno le cose”: ogni ordine è una costruzione. Ogni identità è una decisione. Ogni ruolo è un atto. E questo ci espone, ci disorienta, ma anche ci restituisce potere.
Al di là dell’Essere, l’Altro - Levinas
Emmanuel Levinas fa un gesto audace: mette in discussione l’intera tradizione filosofica occidentale, accusandola — né più né meno — di essere “ontologica” fino all’oblio dell’Altro.
Per Levinas, la filosofia ha privilegiato l’Essere a tal punto da trasformare ogni alterità in identità, ogni differenza in assimilazione. L’Altro, per esistere nel pensiero occidentale, deve prima essere compreso, ridotto, inquadrato. E così, paradossalmente, viene annullato.
Ma c’è un’esperienza che resiste a questa logica dell’identità: l’incontro con il volto dell’Altro. Non un volto qualsiasi, ma il volto umano come epifania, come manifestazione che ci riguarda. È qualcosa che ci sfugge, che ci interpella, che ci chiama.
E la sua chiamata non è una domanda teorica, ma una responsabilità etica: non uccidere.
Levinas rovescia così la prospettiva di Heidegger: non è l’Essere la questione fondamentale, ma l’etica. E l’etica non nasce dalla riflessione sull’essere dell’uomo, ma dalla sua esposizione all’Altro, dal suo "essere-per-l’altro".
L’Essere, inteso come totalità, sistema, ordine, rischia sempre di schiacciare ciò che sfugge, ciò che eccede.
L’Altro, invece, rompe questa totalità: è l’infinito che si presenta nel finito, l’impossibile che irrompe nel possibile.
Ecco allora che l’ontologia — la domanda sull’essere — deve cedere il passo all’etica, intesa come prima filosofia.
Non siamo esseri che, a un certo punto, decidono di prendersi cura degli altri: siamo già, fin dall’inizio, per l’altro.
E in questa asimmetria — in questa esposizione che non possiamo scegliere né evitare — si gioca la nostra umanità.
Essere è comprendere - Gadamer
Hans-Georg Gadamer ci conduce su un sentiero diverso, più quieto ma non meno profondo: quello dell’ermeneutica.
Per lui, l’Essere si dà nel linguaggio, nella comprensione, nell’interpretazione. Non è qualcosa di stabile da afferrare, ma qualcosa che accade ogni volta che entriamo in dialogo con un testo, una persona, una tradizione.
L’Essere non è oggetto né possesso: è un evento, un’esperienza condivisa.
Comprendere, per lui, non è applicare regole, ma lasciarsi trasformare da ciò che ci parla.
E proprio in questo incontro si manifesta l’Essere: come qualcosa che si mostra nel comprendere stesso.
Decostruire l’Essere, ascoltare il differire - Derrida
Jacques Derrida entra nella tradizione occidentale come un ospite inquieto. Non per distruggere, ma per decostruire: per mostrare le pieghe, le omissioni, le esclusioni nascoste nei suoi concetti fondamentali.
E l’Essere, per lui, è proprio uno di questi. Derrida non nega l’Essere, ma ne interroga la pretesa di pienezza, di presenza, di autosufficienza.
Con la sua nozione di différance — una parola che insieme evoca il differire nel tempo e la differenza nello spazio — Derrida ci dice che l’Essere non è mai presente del tutto, che ogni significato è sempre rinviato, ogni identità sempre attraversata dall’Altro.
Non c’è un’origine pura, un centro stabile, una verità assoluta. E proprio per questo il pensiero deve diventare più umile, più attento, più responsabile.
La decostruzione, allora, non è un atto distruttivo, ma un gesto di apertura. Serve a far emergere le voci messe a tacere, le tracce cancellate, le differenze negate.
È un’etica dell’ascolto, che rifiuta la violenza di ogni totalità. E in questo senso, è anche una forma di cura dell’Essere: non per chiuderlo in una definizione, ma per lasciarlo vibrare nella sua instabilità.
L’Essere come co-esistenza - Nancy
Con Jean-Luc Nancy, l’Essere torna a farsi corpo e comunità. Nancy non vuole né fondare né negare l’ontologia: vuole ripensarla a partire dalla nostra condizione condivisa.
L’Essere non è mai solo: è sempre con. Non c’è Essere senza esposizione, senza contatto, senza relazione.
Nancy parla di essere-con come condizione originaria: noi non esistiamo prima degli altri, non ci costruiamo da soli.
L’esistenza è sempre condivisa, anche quando è solitaria. E questa co-esistenza non è fusione né armonia: è apertura, esposizione, vulnerabilità. È ciò che ci costituisce nella nostra finitezza.
L’Essere come esclusione - le filosofe femministe
Molte filosofe femministe hanno mostrato come l’idea occidentale di Essere sia costruita secondo logiche maschili, binarie, escludenti.
Luce Irigaray, ad esempio, ha denunciato il fatto che il pensiero dell’Essere si è costituito sulla cancellazione del femminile: ciò che eccede la forma, la sostanza, l’identità viene relegato al non-Essere, all’irrilevante, all’informe.
Per Irigaray, il linguaggio stesso della filosofia è segnato da questa mancanza.
Parlare dell’Essere significa spesso parlare dell’"Uomo come misura di tutte le cose", lasciando fuori la differenza sessuale, il corpo, la materia, la cura.
Ecco perché serve un’altra ontologia, o forse una ontologia dell’altro, capace di accogliere ciò che non si lascia ridurre all’identico.
Judith Butler ha proseguito questa critica sul piano della soggettività e dell’identità: il modo in cui definiamo cosa significa 'essere un uomo' o 'essere una donna' è tutt’altro che neutrale. Le nostre strutture ontologiche — ciò che conta come essere umano — sono plasmate da norme culturali, storiche, politiche.
In questa prospettiva, mettere in discussione l’ontologia dominante significa aprire spazi di vita per ciò che è stato escluso: i corpi non conformi, le soggettività queer, le relazioni non normate.
Non si tratta solo di 'aggiungere' voci, ma di trasformare le condizioni stesse di ciò che ha diritto di essere.
Oltre l’Essere, vivere - Jullien
Con François Jullien, la questione dell’Essere viene disattivata con eleganza e fermezza.
L’Essere, ci dice, è una categoria che ha dominato il pensiero occidentale al punto da renderci ciechi a tutto ciò che non vi rientra: il divenire, la trasformazione silenziosa, la vita nelle sue pieghe.
Nel suo libro Essere o vivere, Jullien pone la domanda con disarmante chiarezza: vogliamo pensare l’essere o vogliamo imparare a vivere?
L’Essere come idea è sempre stato legato all’unità, alla fissità, alla verità: una costruzione astratta e rassicurante.
Ma vivere, al contrario, è fluido, discontinuo, mai del tutto definibile. Non c’è un Essere del vivere: c’è il suo scorrere, il suo variare, il suo comporsi sempre di nuovo.
Per questo, secondo Jullien, bisogna uscire dalla logica dell’Essere per entrare in quella del vivere: un pensiero che non cerca fondamenti, ma accompagna processi; che non definisce, ma orienta; che non cerca identità, ma si apre alle trasformazioni.
È un pensiero che si situa nel tra, nello spazio interstiziale, dove qualcosa prende forma senza che si possa dire quando, né perché esattamente.
Qui che entra in gioco il concetto di scarto. Per Jullien, lo scarto è quello spazio minimo — eppure decisivo — in cui si gioca la possibilità del cambiamento.
Lo scarto ci libera dalla logica binaria dell’Essere e del non-Essere. Non ci chiede di scegliere tra essere e non essere, ma di abitare il movimento, la tensione, il passaggio.
È un concetto profondamente legato all’esperienza, all’arte del vivere, alla cura. Perché vivere, per Jullien, non è mai essere una volta per tutte: è modularsi, esporsi, inclinarsi. È restare nella vita piuttosto che cercare di dominarla concettualmente.
In questo senso, il pensiero di Jullien ci invita a sospendere la domanda sull’Essere per ascoltare ciò che si muove sotto di essa. E ci ricorda che, forse, l’esperienza più profonda dell’Essere si dà proprio quando smettiamo di nominarlo e iniziamo semplicemente a viverlo.
E oggi, che ce ne facciamo dell’Essere?
A questo punto potremmo chiederci: tutto questo — Parmenide, Spinoza, Heidegger, Levinas, Derrida, Nancy, Jullien… , cosa ha a che fare con la nostra vita?
Non rischia di restare nel cielo delle astrazioni, troppo lontano per chi cerca solo di capire come vivere un po’ meglio, come affrontare le proprie paure, le relazioni, il tempo che passa, il futuro incerto?
Eppure, se ci fermiamo un attimo, ci accorgiamo che la questione dell’Essere è ovunque.
È nella tensione tra il bisogno di stabilità e il desiderio del cambiamento.
È nel modo in cui ci raccontiamo -“sono così, non posso farci niente” - oppure ci rifiutiamo di raccontarci, come se vivere fosse solo andare avanti.
È nella differenza tra l’essere presenti e l’essere produttivi, tra l’essere conformi e l’essere autentici.
È persino nella lingua quotidiana: quante volte diciamo essere qualcuno, non essere all’altezza, essere se stessi, essere fuori, essere in crisi?
L’Essere è il modo in cui ci posizioniamo nella realtà, spesso senza rendercene conto. E allora questo brevissimo percorso filosofico può offrirci alcuni stimoli per rimettere in moto la nostra capacità di pensare, scegliere, stare nel mondo con più consapevolezza.
1. L’Essere non è una cosa da avere, ma un modo di stare
Forse il primo fraintendimento che possiamo lasciarci alle spalle è che essere significhi avere qualcosa — identità, ruolo, coerenza, senso.
Tutte le voci che abbiamo incontrato ci suggeriscono l’opposto: che l’Essere non è mai pieno, chiuso, definito una volta per tutte. Che è più un verbo che un nome. Un modo di stare, di entrare in relazione, di esporci alla vita.
Questa visione ci aiuta a vivere con più leggerezza e più responsabilità insieme: perché se non siamo qualcosa di fisso, allora siamo sempre anche possibilità. E ogni possibilità è anche una responsabilità.
2. Accogliere il Nulla, il limite, lo scarto
Nel nostro tempo ossessionato dalla prestazione e dall’efficienza, tutto ciò che non produce, non crea ricchezza, non è misurabile, rischia di essere percepito come 'niente'. Ma ciò che chiamiamo Nulla — il silenzio, l’attesa, l’interruzione, la fragilità — è lo spazio in cui l’Essere può farsi sentire.
Heidegger, Sartre, Nancy e Jullien, ognuno a suo modo, ci invitano a riconoscere valore a questi spazi vuoti, marginali, scartati. A non vivere la mancanza come un difetto, ma come soglia.
Lo scarto, ci dice Jullien, è il punto in cui qualcosa può davvero cambiare. Non serve sempre un grande gesto: basta spostare un po’ lo sguardo.
3. Non c’è Essere senza l’Altro
Levinas, Irigaray, Butler ci mostrano che ogni visione dell’Essere che ignora l’Altro - l’altro come volto, come corpo, come differenza, come alterità irriducibile - è una visione cieca, violenta, autoritaria.
Pensare l’Essere, allora, significa anche ripensare le relazioni: smettere di considerare l’altro come uno specchio o un ostacolo, e iniziare a viverlo come ciò che ci decentra, ci trasforma, ci rende umani.
In questo senso, la questione dell’Essere diventa profondamente politica.
Perché decidere chi ha diritto di essere, chi può contare come soggetto, chi viene incluso o escluso dal discorso pubblico — significa decidere chi ha accesso alla vita, alla parola, alla cittadinanza.
4. Disobbedire all’ontologia dominante
Viviamo immersi in un’ontologia implicita che non abbiamo scelto. Una ontologia che premia la stabilità, la coerenza, la performance. Che chiama “essere realisti” l’adattamento passivo, e “essere forti” la negazione della vulnerabilità. Riconoscere questa struttura è il primo passo per poterle disobbedire.
Essere, allora, può diventare un atto di libertà: non l’accettazione passiva di ciò che c’è, ma il coraggio di far emergere ciò che ancora non si vede.
L’Essere, come suggeriva Derrida, non è mai puro: è attraversato da ciò che lo disturba, lo differisce, lo eccede. E proprio lì possiamo aprire spazi nuovi.
5. Imparare a vivere senza possedere
Infine, forse la lezione più sottile e più radicale viene da Jullien: smettere di pensare in termini di essere per iniziare a pensare in termini di vivere.
Non si tratta di “essere felici”, “essere centrati”, “essere risolti”. Si tratta di abitare il processo, di inclinarsi verso qualcosa, di stare con ciò che accade, senza dominarlo.
Vivere, più che essere. E viverlo insieme.