Scienza: conoscenza, potere, responsabilità

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L’articolo si interroga sul significato della scienza oggi, sul suo ruolo, i suoi limiti e le sue responsabilità.

Analizza come la scienza sia nata come ricerca di verità, si sia trasformata in strumento di potere e sia oggi al centro di tensioni tra conoscenza, etica e società.

Vengono poi affrontati brevemente i contributi di diversi filosofi attraverso i secoli fino alle concezioni più recenti.

Infine si riflette sulla necessità, oggi, di una scienza più umile, dialogica e orientata alla cura, capace di integrare saperi diversi e di rispondere alle sfide complesse del nostro tempo.

Mai come oggi la parola 'scienza' è sulla bocca di tutti, invocata, attaccata, strumentalizzata.

La scienza “dice”, “non dice”, “è incerta”, “è sicura”. In tempo di pandemia, di crisi climatica, di intelligenze artificiali che imparano più in fretta di noi, le nostre vite sembrano più che mai dipendere da quel vasto e sfuggente territorio che chiamiamo 'scienza'.

Ma che cos’è davvero la scienza? È solo un insieme di dati, una raccolta di teorie, una pratica sperimentale? O è qualcosa di più: un modo di pensare, una forma di potere, una visione del mondo?

In un tempo in cui la fiducia nelle istituzioni vacilla, anche la scienza, che per secoli ha rappresentato il faro della razionalità e del progresso, viene messa in discussione. Non tanto nei suoi risultati, ma nel suo statuto epistemologico, nei suoi limiti, nelle sue alleanze.

Eppure, è proprio nei momenti di crisi che vale la pena tornare alle domande fondamentali.

Che rapporto c’è tra scienza e verità? La scienza è neutrale? È accessibile a tutti o riservata a pochi? E soprattutto: può ancora aiutarci ad abitare con saggezza il nostro tempo?

Questo articolo è un piccolo viaggio filosofico - e sempre personale, quindi arbitrario - alla ricerca del senso profondo della scienza. Non per idealizzarla, né per ridimensionarla, ma per comprenderla meglio — nelle sue promesse, nelle sue contraddizioni, nelle sue possibilità.

Come ogni sapere autentico, anche la scienza merita di essere interrogata. E ascoltata.

Un’antica questione: che cos’è la scienza?

Molto prima che esistessero i laboratori, le riviste accademiche, le pubblicazioni su "Nature", gli esseri umani si interrogavano sul mondo che li circondava. La scienza, prima di essere un metodo, è stata una forma di meraviglia e un’esigenza di senso.

Per Platone, la scienza (epistéme) è il sapere vero, stabile, opposto all’opinione incerta (dóxa). Solo ciò che riguarda l’immutabile, l’essere in quanto essere, può essere oggetto di vera conoscenza.

La matematica, la geometria, la dialettica: ecco i saperi più vicini alla verità.

Aristotele, più empirico del suo maestro, distingue tra epistéme (scienza teoretica), téchne (arte o tecnica) e phrónesis (saggezza pratica).

La scienza, per lui, è un sapere dimostrativo, fondato su cause prime e universali, ma sempre rivolto alla contemplazione della realtà naturale.

È una via per comprendere ciò che è per natura, non ciò che cambia per scelta o azione umana.

Nel Medioevo, la scienza assume una doppia dimensione: da un lato è subordinata alla teologia, dall’altro si fa strumento di lettura del “libro della natura”. Pensatori come Tommaso d’Aquino o Ruggero Bacone vedono nella scienza un sapere legittimo, purché in armonia con la fede.

Ma è con la Rivoluzione scientifica del XVII secolo che la scienza cambia volto.

Galileo Galilei introduce il metodo sperimentale: osservazione, ipotesi, verifica.

La “grande opera del mondo” va letta, dice, come un libro scritto in linguaggio matematico.

Cartesio fonda la conoscenza sul cogito (la capacità di pensare) e sulla chiarezza delle idee, separando il soggetto conoscente dall’oggetto conosciuto.

Newton unifica cielo e terra sotto le stesse leggi fisiche: l’universo diventa una macchina ordinata e prevedibile.

È in questo momento che la scienza assume il ruolo che ancora oggi le riconosciamo: non solo descrivere la realtà, ma anche prevederla, controllarla, trasformarla. Nasce il mito moderno della scienza come chiave del progresso umano.

Ma ogni mito, per quanto potente, ha i suoi limiti. Ed è proprio da quei limiti che la filosofia, nel secolo successivo, comincerà a interrogare la scienza moderna. È da lì che muoveranno anche le grandi riflessioni di autori come Popper, Kuhn, Feyerabend, Latour.

La scienza tra conoscenza e potere

Nel corso del Novecento, la scienza smette di essere considerata un sapere neutro e "fuori dal mondo” e viene sempre più riconosciuta come una pratica umana storicamente situata. Una pratica fatta da persone, con interessi, valori, linguaggi, e soprattutto istituzioni.

A interrogare questo essere 'situata' della scienza è innanzitutto Karl Popper.

Contro la visione induttivista (secondo cui le teorie derivano dall’accumulo di osservazioni), Popper afferma che nessuna teoria può essere definitivamente verificata: può solo essere "falsificata".

La scienza, per lui, non è un edificio di verità stabili, ma un processo dinamico di congetture e confutazioni. Una teoria è scientifica solo se è "falsificabile", ovvero se si espone alla possibilità di essere smentita da un esperimento o da un’osservazione.

Con Popper, la scienza non è più una via verso la certezza, ma una pratica critica. Un’impresa collettiva orientata alla verità, ma sempre esposta all’errore. Questo approccio, come si può facilmente immaginare, non è stato l'unico a farsi strada nel '900.

Negli stessi anni, Thomas Kuhn mostra come la scienza non avanzi per progressivo accumulo, ma per salti radicali: “rivoluzioni scientifiche” che sostituiscono un paradigma con un altro.

Le teorie non vengono superate solo perché confutate, ma anche perché un nuovo modo di vedere il mondo si impone e ristruttura tutto l’apparato concettuale e sperimentale. La scienza, allora, è anche cultura.

Paul Feyerabend, in modo ancora più radicale, sostiene che “contro il metodo” scientifico, si può e si deve difendere una pluralità di approcci, metodi, prospettive.

A suo avviso, non esiste un unico modo razionale di fare scienza, e spesso il progresso avviene proprio quando si infrangono le regole.

Infine, Michel Foucault e Bruno Latour ci mostrano come la scienza sia anche una tecnologia del potere.

Per Foucault, i saperi scientifici (biologia, medicina, psichiatria) hanno storicamente contribuito a disciplinare i corpi e normalizzare i comportamenti. Per questo non esiste un sapere innocente.

Ogni forma di conoscenza è intrinsecamente legata a rapporti di potere.

La scienza moderna, in particolare, si sviluppa insieme a nuove forme di controllo e di governo degli individui.

È ciò che Foucault chiama "biopolitica": la gestione dei corpi, delle malattie, dei comportamenti, delle devianze, attraverso saperi specialistici come la medicina, la psichiatria, la criminologia.

In "Sorvegliare e punire" e in "Storia della follia nell'età classica", Foucault mostra come queste discipline non si limitino a 'descrivere' la realtà, ma contribuiscano a produrla, definendo cosa è normale e cosa non lo è, chi è sano e chi è deviante.

La scienza, allora, diventa una delle tecnologie attraverso cui il potere si esercita in modo sottile e capillare.

Questo non significa rifiutare la scienza, ma smascherarne l’illusione di neutralità.

Per Foucault, ogni sapere implica una responsabilità politica, perché contribuisce a costruire i modi in cui pensiamo, viviamo e ci relazioniamo agli altri.

Per Latour, invece, la scienza non è mai 'pura': è una rete di attori umani e non umani (politiche, laboratori, strumenti, molecole…) che costruiscono collettivamente ciò che chiamiamo 'verità'.

In altre parole: la scienza produce conoscenza, ma anche autorità.

È un’impresa umana, che intreccia ricerca e interesse, etica e tecnica, metodo e contesto.

È uno dei più potenti strumenti di interpretazione e trasformazione del mondo, ma proprio per questo va continuamente interrogata nella sua responsabilità.

Scienza e verità: un rapporto fragile

Oggi ci troviamo di fronte a una profonda crisi di fiducia nei confronti della scienza.

I motivi sono molteplici: la complessità crescente delle conoscenze, la velocità con cui si aggiornano, la comunicazione mediatica spesso semplificata e distorta. Ma anche la sensazione, talvolta fondata, che la scienza sia asservita a interessi economici o geopolitici.

Durante la pandemia, milioni di persone hanno seguito conferenze stampa in cui si diceva che “ce lo dice la scienza ”. Ma quale scienza? Quella dell’epidemiologo, del virologo, dell’economista della salute? E con quale grado di certezza?

Il problema non è solo 'cosa' la scienza ci dice, ma 'come' viene presentata ovvero come un monolite univoco e infallibile, quando in realtà la sua forza sta proprio nella disponibilità all’errore, alla revisione, al dubbio metodico.

Lo stesso Popper ci ricordava che una teoria scientifica non è mai 'vera' nel senso assoluto del termine. È solo la migliore ipotesi che abbiamo 'fino a prova contraria'. La verità, nella scienza, è sempre provvisoria, e questa provvisorietà è una forma di onestà intellettuale, non di debolezza.

Ma questa onestà è difficile da comunicare in un mondo che chiede certezze, slogan, soluzioni immediate.

Così, la scienza rischia di essere schiacciata tra due narrazioni opposte ma ugualmente pericolose: da un lato quella tecnocratica che la esalta come oracolo oggettivo e salvifico; dall’altro quella populista che la ridicolizza come inganno delle élite.

La sfida è allora duplice: ricostruire un patto di fiducia tra scienza e società, e allo stesso tempo abbandonare l’idea ingenua che la scienza possa offrire verità assolute e definitive.

La scienza non è un oracolo, ma uno strumento. Non ci dà certezze, ma ci insegna a convivere con l’incertezza, con metodo e rigore.

Quale scienza per quale società?

Se la scienza è una forma di conoscenza potente, e se ogni potere implica una responsabilità, allora la domanda non è solo "Che cosa può fare la scienza?", ma anche "Per chi e per che cosa lavora?".

È sempre più evidente che non esiste una scienza neutrale.

Le scelte di ricerca, i finanziamenti, le tecnologie sviluppate, persino le domande che la scienza si pone, sono profondamente influenzate da contesti culturali, politici ed economici. E, talvolta, le priorità della scienza non coincidono con i bisogni delle persone o del pianeta.

Per questo oggi si parla sempre più di "scienza orientata": una scienza che non si limita a descrivere il mondo com’è, ma che si interroga sul mondo che potremmo costruire. Che si lascia guidare da domande di senso, da criteri etici, da finalità collettive.

In questo senso, la scienza orientata integra conoscenze diverse e si pone come strumento per affrontare le sfide globali contemporanee, superando la visione di una scienza isolata e autoreferenziale.

In questa direzione si muovono le scienze della complessità, che rifiutano la visione meccanicistica e settoriale per abbracciare l’interdipendenza tra fenomeni, discipline, ecosistemi. Pensare in modo complesso significa riconoscere che ogni azione ha effetti sistemici, e che la conoscenza deve essere relazionale, partecipativa, transdisciplinare.

Ma c’è anche un’altra parola che risuona con forza: cura. La scienza di domani dovrà imparare a essere più umile, più dialogica, più radicata nel reale. Dovrà "ascoltare, co-progettare, integrare" saperi diversi: non solo quelli dei ricercatori, ma anche dei cittadini, dei territori, delle culture.

Dovrà forse somigliare di più a un giardino che a una torre d’avorio: un luogo vivo, aperto, in cui si coltiva la conoscenza come bene comune. In cui si sperimenta, sì, ma anche si riflette. In cui il progresso non si misura solo in innovazione tecnologica, ma anche in giustizia, equità, benessere condiviso.

Un esempio emblematico viene da alcuni scienziati contemporanei che, controcorrente, propongono una scienza rigenerativa, capace di contribuire attivamente alla transizione ecologica e sociale.

Una scienza che si mette al servizio della vita, che non ambisce a dominare la natura ma a comprenderla e custodirla.

In questo orizzonte si colloca anche il pensiero di Raimon Panikkar, che ci invita a ripensare la scienza non solo come conoscenza (scientia), ma come "via di sapienza".

Secondo Panikkar, la scienza moderna ha disgiunto sapere e vita, osservazione e partecipazione, natura e soggetto umano.

Ne è derivato un sapere potente, ma parziale, incapace di cogliere la totalità dell’esperienza.

Per lui, una vera 'rivoluzione scientifica' del nostro tempo dovrebbe consistere nel riconciliare logos e mythos, misurabile e imponderabile, oggettività e interiorità.

La conoscenza non è autentica se non si apre anche alla dimensione del mistero, della contemplazione, della relazione vivente con il mondo.

Panikkar parla di una "scienza cosmoteandrica", capace di tenere insieme cosmo, uomo e divino come dimensioni inscindibili del reale.

Non si tratta di abbandonare il metodo scientifico, ma di inserirlo in un contesto più ampio, in cui anche la dimensione spirituale e simbolica del sapere abbia cittadinanza. In cui conoscere significhi anche "prendersi cura, ascoltare, abitare poeticamente il mondo".

In questo senso, la scienza non è chiamata solo a 'spiegare' il mondo, ma anche a coltivare un rapporto armonico con la vita - un’arte dell’esistenza, nutrita di rigore e di meraviglia.

In questo senso, il dialogo tra scienza e umanesimo non è un lusso accademico, ma una necessità vitale.

Solo un sapere che sa unire rigore e immaginazione, dati e valori, logica e sensibilità, potrà aiutarci ad attraversare la complessità del nostro tempo.

Conoscere per prendersi cura: verso una nuova alleanza dei saperi

La scienza non è un tempio, né un tribunale. È un’impresa umana: fragile, potente, appassionata.

Un cammino collettivo che intreccia, come già detto, intuizione e metodo, rigore e immaginazione.

E, come ogni impresa umana, può diventare tanto strumento di emancipazione quanto veicolo di dominio, a seconda degli scopi e dei valori che la orientano.

In un tempo attraversato da crisi ecologiche, trasformazioni tecnologiche e tensioni sociali profonde, abbiamo bisogno di una scienza che non si chiuda in se stessa, ma che dialoghi con la filosofia, con l’etica, con la vita concreta delle persone.

Una scienza che sappia ascoltare le domande che contano, anche quando non hanno ancora una risposta misurabile.

Già nel 1959, Charles Percy Snow, scrittore e fisico inglese, denunciava la frattura tra le “due culture” - quella scientifica e quella umanistica - come uno dei drammi del mondo moderno.

Oggi quella frattura non è solo culturale: è esistenziale, sistemica, ecologica. E ci invita a cercare nuove alleanze.

Alleanze tra saperi, tra discipline, tra linguaggi.

Alleanze tra ciò che spiega e ciò che dà senso, tra ciò che misura e ciò che sente, tra ciò che funziona e ciò che è giusto.

Alleanze tra la precisione del calcolo e la profondità della cura.

In questo senso, il pensiero di Raimon Panikkar risuona come una bussola preziosa.

Egli ci ricorda che ogni vera conoscenza è anche "com-unione": con il mondo, con gli altri, con noi stessi. E che il sapere non è mai neutro, perché implica sempre una certa visione dell’umano e del reale.

Abbiamo bisogno, oggi più che mai, di una scienza che non perda di vista la sua vocazione originaria: aiutarci a vivere meglio, insieme, in un mondo complesso, fragile, interdipendente.

Una scienza che sappia non solo produrre risposte, ma anche custodire domande.

Una scienza che non abbia paura della verità, ma nemmeno di essere umile.

Una scienza che, come la filosofia, riconosca che sapere è sempre anche imparare a prendersi cura.