Tolleranza, praticarla per andare oltre

condividi l'articolo su:


Scriveva Thomas Mann nel saggio “Achtung Europa!“ del 1938, alla vigilia della seconda Guerra Mondiale: “Ciò che oggi sarebbe necessario è un umanesimo militante, che si saturi della convinzione che il principio della libertà, della tolleranza e del dubbio non deve lasciarci sfruttare e sorpassare da un fanatismo che è senza vergogna e senza dubbi”.

Queste parole mi sono capitate tra le mani mentre cercavo l’inizio di una possibile esplorazione e, soprattutto, riflessione critica su un concetto, quello di ‘tolleranza’, che sento molto attuale ma anche un po’ logoro, in questo momento storico in cui il mondo appare sempre più come qualcosa in cui sia difficile raccapezzarsi. Mi sembrano un buon viatico.

Dall’etimologia al concetto

Tolleranza viene dal latino tolerantia, derivato da tolerare ‘sopportare, sostenere’, che nasce , a sua volta, da tollere ‘sollevare’. Tollerare qualcosa, quindi, è letteralmente reggerlo, sopportarlo.

Il suo significato attuale è «accettazione e rispetto verso idee, opinioni, religioni diverse dalle proprie» (Zingarelli 2023).

L’etimologia ci aiuta a illuminare quel senso di impegno, a spiegare quella sensazione di fatica, di limite che sempre si accompagna, in maniera più o meno consapevole, a un atteggiamento che ci sembra ‘tollerante’.

Ma come si è arrivati al concetto che la parola esprime oggi?

Il concetto di tolleranza affonda le sue radici nella storia come principio essenziale per la pacifica convivenza tra le diverse confessioni religiose.

Inizialmente, si affermò come riconoscimento della libertà di coscienza in tale ambito, un principio che si rivelò indispensabile per garantire armonia tra le fedi.

Tuttavia, con il tempo, la nozione di tolleranza ha assunto un significato più ampio, estendendosi a tutte le convinzioni umane, non solo in ambito religioso, ma anche politico, morale e scientifico.

La tolleranza e la libertà religiosa

Nel mondo greco-romano, i concetti di tolleranza e intolleranza non esistevano, erano completamente estranei al modo di pensare e alla cultura dell’epoca.

Il politeismo, infatti, si caratterizzava per un atteggiamento aperto e sincretico, accogliendo senza difficoltà nuove divinità e culti.

La repressione di determinate pratiche religiose, quando avveniva, non era dettata da motivi ideologici o teologici, ma piuttosto da esigenze di ordine pubblico.

L’idea di tolleranza come diritto alla libertà religiosa iniziò a emergere in maniera significativa dopo la Riforma protestante, in un contesto segnato da conflitti tra le diverse correnti del cristianesimo.

Fu proprio in questo periodo che il principio della tolleranza divenne oggetto di profonde riflessioni filosofiche.

Già nel Medioevo, Tommaso d’Aquino sosteneva che le differenze di culto tra cristiani, ebrei e musulmani potessero essere tollerate, facendo propria l’idea di Sant’Agostino secondo cui la fede, essendo frutto della grazia divina, non può essere imposta con la forza.

Durante il Rinascimento, invece, gli intellettuali coltivarono il sogno di una religione filosofica capace di superare le divisioni tra i vari credo.

Tuttavia, il più rilevante argomento a favore della tolleranza fu avanzato nel 1670 dal filosofo olandese Baruch Spinoza, il quale affermò che la libertà di pensiero non può essere soppressa e che la coscienza individuale è inviolabile.

Nel 1689, l'inglese John Locke, nella sua celebre “Lettera sulla tolleranza”, ribadì che le credenze religiose non possono essere imposte per legge, poiché la fede non è una questione di volontà, e soprattutto non deve interferire con i diritti civili degli individui.

Secondo Locke, la Chiesa doveva essere considerata una comunità libera e volontaria, rispetto alla quale chiunque avrebbe dovuto poter entrare o uscire senza subire ripercussioni di natura civile.

La separazione tra autorità religiosa e politica, secondo il filosofo, avrebbe garantito stabilità e armonia alla società, prevenendo conflitti tra le diverse confessioni e proteggendo il potere statale da indebite ingerenze ecclesiastiche.

Libertà di coscienza e pluralismo

In Francia, il dibattito sulla tolleranza prese slancio alla fine del Seicento grazie alle critiche di Pierre Bayle nei confronti del dogmatismo religioso e della pretesa di imporre con la forza una determinata fede.

Dopo il 1750, il tema divenne centrale nel pensiero illuminista, e fu Voltaire, nel suo “Trattato sulla tolleranza” del 1763, a formulare una delle più celebri definizioni del concetto: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te».

Sul finire del Settecento, la distinzione tra Stato e religione si affermò definitivamente, portando alla progressiva inclusione del principio di tolleranza nei documenti fondamentali delle nascenti democrazie.

Nel 1789, l'Assemblea Costituente francese riconobbe la libertà di coscienza come diritto inviolabile dell’uomo, e nel 1791 la Costituzione federale degli Stati Uniti ne seguì l'esempio.

Con il tempo, il concetto di tolleranza si è esteso oltre la sfera religiosa, divenendo sinonimo di libertà in senso più ampio.

Già nella Costituzione francese del 1793 si sanciva il diritto alla libera espressione del pensiero, anticipando una visione della tolleranza strettamente legata al concetto di libertà individuale.

Questa evoluzione trovò ulteriore espressione nel pensiero del filosofo inglese John Stuart Mill, che nel suo “Saggio Sulla libertà” del 1859 definì la libertà di coscienza come il diritto assoluto di pensare, sentire ed esprimere opinioni su qualsiasi argomento, sia esso scientifico, morale o teologico, rivendicando alla tolleranza una funzione maieutica di nuove idee, un contributo determinante alla creazione di condizioni che rendano possibili l’innovazione e l’ampliamento del sapere.

Mill argomenta che ben difficilmente può svilupparsi una vita autonoma in presenza di sanzioni legali che minacciano chi sceglie di vivere in maniera non conforme. Ma anche la disapprovazione sociale può produrre gli stessi esiti.

Scrive, infatti: “Nella nostra epoca tutti, dalla più elevata alla più infima classe sociale, vivono come se fossero sotto lo sguardo di un censore ostile e tremendo, non soltanto nelle questioni che riguardano gli altri, ma anche in quelle che riguardano soltanto loro, l'individuo o la famiglia. Non si chiedono «Che cosa preferisco?» oppure «Che cosa si addice al mio carattere e alle mie inclinazioni?» o «Che cosa permetterebbe alle mie qualità migliori e più elevate di esprimersi, di crescere rigogliosamente?» Si chiedono «Che cosa si addice alla mia posizione?», «Come si comportano abitualmente le persone della mia condizione economica e sociale?» o, peggio ancora, «Come si comportano abitualmente le persone di condizioni economiche e sociali superiori alle mie?» Non voglio dire che scelgono la consuetudine invece di ciò che si addice alle loro inclinazioni: non hanno inclinazioni che non siano per la consuetudine.”

Parole sorprendentemente attuali al tempo dei social network, i più potenti amplificatori della riprovazione sociale che siano mai esistiti.

Si rimane, così, prigionieri di un dispotismo sociale che genera un dispotismo mentale che blocca l'intelletto umano dentro il claustrofobico perimetro delle conoscenze acquisite. 

Negli ultimi due secoli, il progressivo ampliamento del concetto di tolleranza ha portato a un’idea più inclusiva, che non riguarda solo la libertà di pensiero, ma anche il riconoscimento e il rispetto della diversità nei modi di vivere e nelle scelte individuali realizzando quel salto di qualità che ha aperto la strada al pluralismo come valore da tutelare e promuovere. 

Un concetto sfaccettato

Oggi la tolleranza presenta diverse e complementari sfaccettature che, intersecandosi in maniere differenti, vanno distinte e comprese.

Essa può essere esaminata da tre principali differenti prospettive: quella dello Stato, quella della società e quella dell’individuo.

Per meglio comprendere guardiamo, ad esempio, alla tolleranza religiosa:

  • uno Stato può dirsi tollerante quando garantisce la libertà di culto,
  • una società è tollerante se le minoranze religiose non subiscono discriminazioni o atti ostili,
  • a livello individuale, una persona si dimostra tollerante quando rispetta le pratiche religiose altrui e non si adopera per ostacolarle.

Facendo un altro esempio - nel campo dei diritti civili - le persone omosessuali possono legittimamente considerarsi vittime di intolleranza in molteplici contesti:

  • quando l’omosessualità è punita penalmente,
  • quando le leggi negano il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali,
  • quando i media veicolano messaggi omofobi o
  • quando, nella quotidianità, i vicini di casa mettono in atto piccoli o grandi gesti di discriminazione.

Questa distinzione tra le diverse dimensioni della tolleranza ci aiuta a comprendere un aspetto spesso trascurato: in un determinato contesto geografico possono coesistere contemporaneamente forme di tolleranza e di intolleranza.

È possibile, ad esempio, che esista una legislazione inclusiva in una società ancora poco aperta, o viceversa.

Allo stesso modo, le convinzioni e i comportamenti individuali possono essere tolleranti o intolleranti indipendentemente dalle norme giuridiche in vigore o dalle consuetudini sociali prevalenti.

I limiti della tolleranza

Il principio della tolleranza non è privo di limiti: essa può essere garantita solo nella misura in cui non arreca danno agli altri.

Le differenze devono dunque essere accettate fintanto che non violano i diritti fondamentali della persona e non mettono in pericolo la coesione sociale.

In questo equilibrio tra libertà e responsabilità risiede il fondamento della convivenza pacifica tra individui e comunità eterogenee.

La tolleranza, pertanto, non può essere assoluta, poiché esistono situazioni in cui è necessario stabilire dei limiti.

Il problema centrale è proprio definire questi confini, distinguendo tra ciò che rientra nella tolleranza e ciò che invece riguarda questioni di giustizia.

Ad esempio, non si può tollerare chi mira a distruggere la democrazia, poiché concedere spazio a movimenti antidemocratici significherebbe minare le basi stesse della società aperta.

Karl Popper ha ben evidenziato il paradosso della tolleranza: se permettiamo agli intolleranti di agire indisturbati, la tolleranza stessa finirà per scomparire.

Tuttavia, si può superare questo paradosso distinguendo tra due tipi di intolleranza: quella di chi rifiuta la tolleranza come principio sociale e quella di chi si oppone alla negazione di tale principio.

John Stuart Mill ha proposto un criterio chiaro per stabilire i limiti della libertà: un’azione può essere vietata solo se causa un danno ingiusto agli altri, ossia una lesione dei diritti fondamentali.

Questo principio aiuta a stabilire cosa non possa essere tollerato senza che per questo si trasformi la società in un sistema repressivo.

Oggi il tema è diventato ancora più complesso e se è istintivo e ragionevole per i più opporsi agli incitamenti diretti all’odio – così presenti nei social media -, resta il problema delle idee che, pur non essendo tali, compromettono la qualità del dibattito pubblico e possono generare danni sociali.

Le teorie cospirazioniste, le fake news e la disinformazione hanno dimostrato di poter influenzare la politica e la salute pubblica in modo pericoloso, come nel caso delle false informazioni sul COVID-19 - che hanno creato confusione e allarme ostacolando la lotta alla propagazione del virus - o della diffusione della tesi, in certi segmenti della popolazione USA, che Donald Trump fosse il vero vincitore delle elezioni del 2020, culminata nell’assalto al Campidoglio del gennaio 2021.

Per non parlare della sfacciata manipolazione della realtà, cui assistiamo quotidianamente in questo tempo, da parte di possessori di canali social attraverso i quali essi cercano di influenzare pesantemente gli equilibri politici ed economici nel mondo.

Questo porta a chiedersi se la società debba  - e come possa - limitare anche queste forme di espressione per prevenirne le drammatiche conseguenze negative.

Una rivoluzione possibile e coraggiosa

C’è un’altra domanda che possiamo porci: “E’ forse arrivato il tempo di superare il concetto di tolleranza - sul quale pure abbiamo costruito la società occidentale contemporanea - a favore di qualcosa di più incisivo, più ambizioso e in grado di farci uscire dalla polarizzazione intollerante e paralizzante in cui ci siamo trovati in questa accelerazione formidabile della storia?”

Allo stato attuale nelle società multiculturali, multietniche, multirazziali e multireligiose la tolleranza non basta più.

Relazionarci all’altro con un semplice atteggiamento di rispetto sembra già tanto, ma è anche troppo poco. Oggi il problema è che con l’altro dobbiamo convivere e soprattutto costruire un destino comune.

La situazione che viviamo sembra chiamarci, imperiosamente perché drammaticamente, ad andare ben oltre la semplice tolleranza. Questa infatti ci appare spesso un approccio inadeguato, troppo cauto e progettualmente troppo minimale per realizzare il cambiamento che sentiamo indispensabile.

Forse la meta ambiziosa è una forma conviviale di vita, nella quale, in ottica di antifragilità, proprio la drammaticità della situazione attuale ci può condurre.

Oltre il rispetto e la relazione tollerante, cominciando a costruire relazioni autentiche, intime, generative, potremmo finalmente entrare nel territorio della convivialità.

«La convivialità è qualcosa di molto più profondo della semplice tolleranza reciproca» scrive Raymon Panikkar - filosofo, teologo e guida spirituale del nostro tempo - ne "I fondamenti della democrazia. Forza, debolezza, limite".

Contrapponendo il concetto di convivialità a quello di tolleranza, afferma che quest’ultima, sebbene sia un passo avanti rispetto all’intolleranza, non sia sufficiente per una vera relazione armoniosa tra culture, religioni e individui.

Secondo Panikkar, la tolleranza implica comunque un atteggiamento di superiorità: si tollera qualcuno o qualcosa che si considera diverso, inferiore o persino sbagliato, senza però accettarlo pienamente. È un atteggiamento di sopportazione più che di autentica apertura.

La convivialità, invece, rappresenta un livello superiore di relazione, in cui le differenze non sono semplicemente tollerate, ma diventano motivo di arricchimento reciproco.

Significa vivere insieme in una pluralità armonica, senza bisogno di assimilare o omologare l’altro.

Per Panikkar, la convivialità è il vero obiettivo di una società interculturale: un rapporto in cui ogni tradizione, ogni cultura e religione viene accolta nella sua autenticità, senza essere giudicata secondo i parametri di un’unica visione dominante.

Nutrire la cooperazione, la convivialità, l’empatia e la simpatia può consentirci un nuovo cammino di civiltà da fare insieme per ri-generare le società  facendole diventare più giuste, più sane e più prospere per tutti.