Mentalità inclusiva e competenza interculturale

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Il fil rouge delle nostre conversazioni - e della nostra newsletter - del 2023 è costituito dagli IDGs (Inner Development Goals), iniziativa globale alla quale abbiamo aderito con entusiasmo. 

Gli IDGs, lo ricordiamo, costituiscono il framework delle qualità e capacità che è indispensabile coltivare e sviluppare in tutte gli esseri umani se vogliamo concretamente raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (SDGs).

L'IDG del quale ci occupiamo in questo mese è 'mentalità inclusiva e competenza interculturale'.

Nel documento di presentazione del framework questo IDG viene illustrato come "Disponibilità e capacità di abbracciare la diversità e di includere persone e collettività con punti di vista e background diversi".

Nel villaggio globale

Probabilmente pochi oggi non si sono ancora resi conto che tutta l’umanità vive in una comunità planetaria composta da miliardi di persone  – per la quale Marshall McLuhan negli anni ’60 coniò l’espressione “villaggio globale” ̶  che non vivono tutte in pace con se stesse e con gli altri. Il villaggio è in continuo divenire e i suoi abitanti sperimentano diverse forme, acute o croniche, di sofferenza perlopiù generate da diversi tipi di estremismo.

Operando la massima semplificazione possiamo dire che il mondo come è oggi è ancora frutto delle quattro grandi civiltà sviluppatesi tra il 10.000 e il 4.000 a.C. e gli estremismi che si manifestano - continuamente e dovunque - lo rendono un luogo in cui esistono certamente più conflitti del necessario, un luogo molto complicato e a volte addirittura folle.

Il villaggio globale pullula di persone che si sintonizzano contemporaneamente su qualsiasi frequenza e mentre alcuni si adoperano incessantemente per la pace, altri, allo stesso tempo e nello stesso mondo lavorano senza tregua a favore delle guerra.

La maggior parte di noi resta intrappolata nel fuoco incrociato di atteggiamenti estremi e contrapposti senza sapere come operare tra questi una riconciliazione che ci consenta di vivere nel presente e nella pace.

Spesso gli esseri umani pensano che gli scontri di civiltà siano qualcosa che si consuma al di sopra delle loro teste e che il singolo non abbia il benché minimo potere di influenza.

Ma se hanno la possibilità e la capacità di fermarsi a riflettere, di guardare la realtà con distacco e attenzione alla interconnessione e interdipendenza di tutte le cose, facilmente si accorgono che i loro stessi problemi non sono locali o isolati, piuttosto sono condivisi e collegati in una rete globale.

Il modo in cui li tratteranno, allora, influenzerà il modo in cui gli altri tratteranno i propri.

Affrontare i propri conflitti con saggezza consentirà di risolverli e di essere esempio per altri, affrontarli in modo avventato li esacerberà e contribuirà a creare un effetto a catena che peggiorerà anche le condizioni degli altri.

Un affetto a catena che ha un impatto primario sulla vita organizzativa e sul benessere – più frequentemente malessere - che si contribuisce, spesso inconsapevolmente, a costruire.

Separati o interconnessi?

Viviamo tutte e tutti in una specie di favola – che si auto rafforza costantemente e che sempre più frequentemente viene scambiata per realtà – che diffonde la convinzione che prima della globalizzazione fosse stato possibile, per gli appartenenti a ciascuna civiltà, sentirsi separati e distinti da quelli appartenenti alle altre. Prima…., oggi invece …..

In realtà prima si era solo molto più all’oscuro delle interconnessioni esistenti.

Come ci mostra con splendida ironia il saggio scritto dall’antropologo americano Ralph Linton apparso su American Mercury nel 1937, pubblicato ben prima della ‘globalizzazione’.

"Non ci può essere alcun dubbio sull’americanismo dell'americano medio, o sul suo desiderio di preservare questo prezioso patrimonio a tutti i costi. Ciononostante, alcune idee insidiose straniere si sono già insinuate nella sua civiltà, senza  che egli si sia reso conto di cosa stesse succedendo.

Così l'alba trova il patriota ignaro vestito in pigiama, un indumento di origine indiana, che giace in un letto costruito secondo un modello originario sia della Persia che dell’Asia Minore.

Egli è avvolto in materiali non americani: cotone, reso domestico in India; lino, nel Vicino Oriente, lana da un animale originario dell'Asia Minore, oppure seta i cui impieghi sono stati scoperti dai cinesi. Tutte queste sostanze sono state trasformate in tessuto con metodi inventati nel sud-ovest asiatico. Se il tempo è sufficientemente freddo può anche essere a letto sotto un piumino inventato in Scandinavia.

Al risveglio dà un’occhiata all'orologio, un'invenzione medievale europea, si alza in fretta, e va al bagno […]. Ma l'influenza straniera insidiosa lo insegue anche qui. Il vetro è stato inventato dagli antichi Egizi, l'uso di piastrelle per pavimenti e pareti nel Vicino Oriente, la porcellana in Cina, e l'arte della smaltatura su metallo da artigiani del Mediterraneo dell'età del bronzo. Anche la sua vasca da bagno e i servizi igienici sono copie, solo leggermente modificate, di originali romani.

In questo bagno i lavaggi sono si, americani, ma con il sapone inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si pulisce i denti, una pratica sovversiva europea che ha invaso l'America nella seconda metà del XVIII secolo. Poi fa la barba, rito masochistico sviluppato dai sacerdoti pagani dell'antico Egitto e Sumeri. Il processo è reso meno una penitenza dal fatto che il rasoio è di acciaio, una lega ferro-carbonio scoperta in India o nel Turkestan.  Infine, egli si asciuga in un asciugamano turco.

Tornando alla camera da letto, la vittima inconsapevole di pratiche non americane prende i vestiti da una sedia, inventata nel Vicino Oriente, e procede a vestirsi.

Egli si dà una valutazione finale nello specchio, una vecchia invenzione del Mediterraneo, e se ne va al piano di sotto a fare colazione.  Eccolo affrontare tutta una nuova serie di cose straniere […]  

Finita la colazione, si pone sul capo un pezzo stampato di feltro, inventato dai nomadi dell’Asia orientale, e, se sembra che possa arrivare la pioggia, si mette le scarpe esterne di gomma, scoperta dagli antichi messicani, e prende un ombrello, inventato in India.

Alla stazione si ferma per un attimo per comprare un giornale, pagando con monete inventate nell'antica Lidia. Una volta a bordo, tende a tornare a respirare i fumi di una sigaretta inventata in Messico, o di un sigaro inventato nel Brasile.

Nel frattempo, legge le notizie del giorno, stampate in caratteri inventati da antichi semiti secondo un procedimento inventato in Germania su un materiale inventato in Cina.

Legge attentamente l'ultimo editoriale in cui si sottolineano gli esiti terribili per nostre istituzioni di accettare idee straniere; non mancherà quindi di ringraziare, in una lingua indo-europea, un Dio ebraico per essere al cento per cento (sistema decimale inventato dai greci) americano (da Americus Vespucci, geografo italiano)". (R. Linton, One hundred per-cent american, in  American Mercury, 1937)

L’umanità, quindi, è stata sempre interconnessa ma prevalentemente in maniera inconsapevole. Oggi invece, in massa, siamo interconnessi non solo dalle merci ma anche attraverso il nostro contatto im-mediato con persone di tutte le culture.

La globalizzazione ha prodotto l’assemblaggio e la convivenza in un grande crogiuolo di tutte le civiltà e le culture insieme a tutti i loro reciproci conflitti. Ciò che non ha ancora offerto è un contesto umano globale interculturale in cui sia possibile accogliere tutte le diversità riconciliandone gli estremismi che portano ai conflitti.

Tale riconciliazione non solo è possibile ma è diventata sempre più necessaria. Senza di essa non sarà possibile raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU.

E anche nei sistemi organizzativi la crescente attenzione al benessere - personale e sociale - delle nuove generazioni rende l’assicurare un ambiente di lavoro inclusivo e interculturale cruciale per la loro capacità di innovare e prosperare in maniera sostenibile.

Il contributo della filosofia

Allo sviluppo di una mentalità inclusiva e di un orientamento decisamente interculturale, la filosofia e le pratiche filosofiche possono portare un significativo contributo.

Per dare valore all'unicità e all'alterità sviluppando un etica interculturale di riconoscimento e rispetto.

Infatti per coltivare la "disponibilità e capacità di abbracciare la diversità e di includere persone e collettività con punti di vista e background diversi", le questioni (anche di carattere quotidiano) a questo connesse, richiedono una riflessione sull’etica non accidentale e contingente ma, piuttosto, costitutiva e imprescindibile.

Alcune categorie essenziali che utilizziamo per definire la teoria e la pratica dell’interculturalità, infatti, sono le stesse che hanno accompagnato da sempre la riflessione etica: alterità, riconoscimento, identità, differenza, relazione, dialogo, libertà, responsabilità, autonomia, diritti umani, norme e simili.

La riflessione sull’interculturalità è riflessione sulle relazioni tra gli individui, sulle differenze nelle abitudini di vita, sulle diverse modalità di organizzazione politica e sociale ma in gioco non c’è solo la questione dell’altro nella sua differenza quanto soprattutto quella della possibilità di costruire relazioni tra le differenze, ovvero praticare e assicurare l’inclusione.

La questione, quindi, riguarda proprio la possibilità di progettare un orizzonte di vita e norme etiche e di cittadinanza organizzativa – e  comune - che, adotti la pratica dialogica come pratica di relazione alternativa a quella conflittuale, senza cedere alla tentazione di pratiche inclusive assimilative e operando una sintesi dinamica e mai definiva delle molteplici visioni del mondo presenti nella realtà.

Da quanto sinteticamente accennato finora appare evidente che una mentalità interculturale e la capacità di praticare un'autentica inclusione, si sviluppano in maniera complessa e su diversi piani.

Per questo la pratica filosofica può educare ed esercitare ad assumere un atteggiamento dialogante tra sé e l’altro da sé  ̶  intesi nel senso più esteso  ̶  a mettere in discussione stereotipi e pregiudizi, a dar vita a uno spazio inter, “tra”, nel quale si può intervenire su pratiche, concetti, idee, ideologie alla luce di una idea di interculturalità dinamica e polifonica.

La pratica filosofica come pratica dialogica e quindi intrinsecamente interculturale

Con l’espressione ‘pratiche filosofiche’ si designa un insieme di procedure, ormai collaudate e affermate da molti anni, la cui finalità è favorire la riflessione e il dialogo tra le persone, vale a dire il pensiero critico, l’ascolto e l’accoglienza reciproca.

Il semplice esercizio di farsi e fare domande e di ascoltarsi - sé e l’altro - pone infatti in relazione, genera pensieri ‘nuovi’, rafforza i legami comunitari, crea appartenenza.

Nel dialogo le tensioni possono essere elaborate, i conflitti non vengono negati ma hanno la possibilità di essere accolti con equanimità e saggezza e con attenzione alla qualità delle dinamiche relazionali.

Dando impulso a interazioni collettive di comprensione della realtà, si promuove tanto la polifonia del pensare quanto la consapevolezza nell’agire.

Caratteristiche delle pratiche filosofiche sono la sospensione del giudizio (l’epoché), il parlare con sincerità (la parresia), l’attenzione vigile al fluire dell’esperienza (la prosoché).

In questo esercizio complesso, che aiuta a riconoscere la relazione imprescindibile tra sé e l’altro da sé, si ha quindi l’occasione di sospendere i propri giudizi, di prendere coscienza dei propri pregiudizi e di riconoscere emozioni e stati d’animo propri e altrui.

Si compie quindi un esercizio tras-formativo del singolo e della comunità che amplia la consapevolezza e la comprensione di sé e del mondo, favorisce la messa in comune delle speranze e la condivisione delle visioni del mondo e di mondi possibili, riconoscendo, nella elaborazione comunitaria, i germi di cambiamento nascosti nel presente, che, proprio in quanto presente, può apparire alla coscienza individuale opaco e indecifrabile.

Il dialogo “mette il pensiero in movimento” e il facilitatore – senza proporre, né tantomeno imporre, la propria visione ed eventuali soluzioni – accompagna il singolo e/o la comunità ad acquisire consapevolezza degli assunti teorici non espliciti e dello scontro tra valori e sentimenti che rendono impossibile prendere in considerazione prospettive alternative che potrebbero condurre a un’elaborazione fruttuosa dei problemi.

Un libero esercizio critico di dialogo, che tende alla comprensione e all'ampliamento delle proprie visioni del mondo, costruisce quella capacità di “pensare in modo vasto” che diventa facile cogliere come il presupposto essenziale per vivere bene e pienamente la vita.

Ogni persona, indipendentemente dalla sua cultura e dall’estrazione sociale, ha una propria 'visione del mondo', in base alla quale interpreta la realtà che la circonda, reagisce a essa, la giudica, vi interviene. Ma, nella maggior parte dei casi, questa visione del mondo non è stata sottoposta a un esame critico per sceglierla consapevolmente e liberamente ma piuttosto è stata accolta - spesso inconsapevolmente - come una convenzione invalsa e indiscutibile.

La complessità del mondo contemporaneo rende sempre più difficile elaborare visioni della realtà sufficientemente ampie e coerenti da permettere a ciascun individuo di affrontare con fiducia la 'sfida' della libertà: scegliere ogni volta in modo consapevole, senza affidarsi ai sempre più deboli principi d’autorità – la famiglia, le religioni, le ideologie, la stessa azienda.

Per questo avere il tempo – lo spazio fisico e mentale – per interrogarsi sulla fondatezza dei propri punti di vista sulle cose e prenderne in considerazione di nuovi, può aiutare a conoscere meglio se stessi e il proprio sistema di valori, a promuovere la capacità di ascoltare, di ascoltarsi, di vedere le cose dal punto di vista degli altri, di chiedere e rendere ragione di quanto si pensa e si fa, di vivere con maggiore consapevolezza.

Non esiste un itinerario valido per tutti, per questo è necessario valorizzare le differenze individuali senza ricercare l’imitazione di un modello esemplare o l’applicazione di un metodo standardizzato.

E allora il lavoro di facilitazione è soprattutto un lavoro maieutico di creazione delle condizioni di sicurezza psicologica e di offerta di stimoli che consentano alle persone coinvolte di porsi nella ‘postura filosofica’ dell’interrogazione sulle cose ovvie e della ricerca ‘senza fine’ attorno alle questioni poste.

Un processo efficace per la trasformazione culturale in tema di Inclusione e Interculturalità

Tutti i workshop di tra-sformazione culturale – e comportamentale - realizzati da Bottega Filosofica in tema di Inclusione e Interculturalità adottano un approccio sistemico, maieutico ed esperienziale – e per questo filosofico – mirando a coinvolgere tutte le dimensioni della persona nella presa di consapevolezza della propria ‘visione del mondo’, dei pre-giudizi (in senso filosofico, le convinzioni sulla base delle quali interpretiamo ciò che ci accade e agiamo), dei comportamenti che questi determinano, degli effetti che questi hanno sugli altri come singoli e sul sistema nel suo complesso.

In tal modo stimoliamo una assunzione di responsabilità in prima persona rispetto alle iniziative che ciascuno può intraprendere per tras-formare se stesso, il proprio team, l’organizzazione e, in definitiva, la società nella direzione di una maggiore inclusività e un maggiore benessere.

Coinvolgendo e mobilitando - come ci piace dire - testa, cuore e mani.

Testa, comprendere

Per questo il primo passo è sempre comprendere ovvero ridare significato - ri-generandolo in maniera condivisa - a parole come ‘diversità’, 'alterità', 'unicità', ‘equità’, ‘inclusione’, ‘appartenenza’, esplorandole nel modo in cui si manifestano nel contesto esterno e interno all’organizzazione/comunità nella quale si sta svolgendo il workshop.

Questo consente di guardare a tutte le molteplici sfaccettature e alle relazioni tra i diversi concetti, a come diventano comportamenti coerenti o incoerenti e a come questi ultimi impattano - positivamente o negativamente - sulla vita personale e organizzativa e sui risultati di business dell’impresa così come sul benessere della comunità.

Cuore, percepire e sentire

Il secondo momento è quello della presa di consapevolezza, dell’esperienza, della sperimentazione, del riconoscimento degli stereotipi e pregiudizi dai quali, spesso inconsapevolmente, ci facciamo condizionare e della scoperta di come funzionano in generale e nello specifico di ciascuno.

Mani, agire

Le prime due fasi sono indispensabili perché nel terzo momento, quello dell’agire, siano generate idee di azioni fattibili e sostenibili, piani d’azione individuali e collettivi per trasformare, almeno un po', la realtà presente in un futuro desiderabile nel quale la ricchezza di qualità e capacità diverse – uniche – e le diverse culture presenti possano trovare una reale armonizzazione.

Un'armonia capace di aumentare concretamente il capitale sociale disponibile nel sistema, generando maggiore benessere per il sistema nel suo complesso e per tutte le sue componenti.

Su misura

Questo modello generale di intervento viene ‘personalizzato’ sulle caratteristiche e sulle esigenze dell’organizzazione o del contesto nel quale si vuole favorire, facilitare, sostenere una trasformazione culturale e questo da origine a progetti sempre ‘su misura’ e sempre fortemente partecipativi.

Riteniamo infatti che non basti suscitare interesse nelle persone con discorsi convincenti, è necessario progettare e mettere a disposizione ambienti – contenitori - sicuri e stimolanti in cui ciascuna possa trovare il proprio modo di vivere attivamente la trasformazione, di darle la forma a sé più congeniale e sostenibile, di riconoscere il rischio insito nel nuovo come una reale opportunità piena di senso.