Inclusione e dialogo sono una 'necessità'

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Ormai conosciamo il nostro criterio editoriale del 2023: ogni mese scegliamo una parola della filosofia per noi importante e la esploriamo in Pausa. a partire dal suo senso in filosofia, ma soprattutto come spunto per un agire virtuoso da realizzare nel mondo.

In Pensare B, invece, nello stesso mese scegliamo un IDG (Inner Development Goal) che sentiamo risonante con la stessa parola e lo esploriamo con un approccio simile per contribuire a dargli sostanza e ad animare iniziative concrete di cambiamento nella direzione di una sempre maggiore sostenibilità e felicità per tutti.

'NECESSITÀ'

Spesso ci accade di riconoscere nel linguaggio comune, le tracce di concetti di grande importanza e densità, sui quali ci si continua a interrogare sin dall’antichità in una esplorazione sempre attuale. Uno di questi concetti è 'NECESSITÀ'.

Se sfogliamo un dizionario, per questa parola troviamo una pluralità di significati. Ciò che li accomuna tutti è un senso di inevitabilità, il trovarsi di fronte una forza che è superiore alle nostre capacità, ma anche a qualcosa che si impone alla nostra intelligenza. Quando ci troviamo ad accorgerci – e ad ammettere - che le cose stanno in un certo modo non per caso, ma perché, anche se non sempre siamo in grado di spiegarlo, non potrebbero stare diversamente.  

Il pensiero filosofico antico riconosceva all'idea intuitiva di ciò che oggi chiameremmo ‘necessità’, almeno due componenti fondamentali, una relativa alla natura e una relativa alla logica e alla razionalità in generale. E pertanto, la necessità naturale governerebbe i fenomeni, mentre la necessità logica mostrerebbe i limiti di ciò che possiamo umanamente pensare e concepire. Aristotele, nel quinto libro della Metafisica, illustra e commenta una serie di significati associabili alle nozioni di necessità. Tra questi c'è un significato di necessità in senso ontologico. Ovvero “ciò che non può essere diverso da come è. Diciamo che è necessario che così sia […] Quando è impossibile che il bene e la vita esistano, senza che ci siano determinate cose, queste sono necessarie e questa causa è una necessità”. 

Per questo riteniamo che la diversità sia una necessità: non si dà vita senza diversità. Condizione essenziale perche la vita si riproduca e moltiplichi è infatti la diversità degli organismi.

Inoltre, se riteniamo che sia buono il comportamento che è in armonia con lo sviluppo della natura allora l'inclusione, intesa come scelta di valorizzazione di questa diversità, diventa un dovere morale individuale.

Non è infatti di per sé necessaria poiché si danno casi in cui si ha vita ma non inclusione, tuttavia tutte le volte che la vita viene valorizzata (vale a dire in un mondo che considereremmo buono) allora abbiamo anche inclusione.

Questa responsabilità è individuale ma si estende anche alle organizzazioni in cui gli individui si aggregano nella misura in cui tutti gli esseri umani che la costituiscono decidono volontariamente e liberamente di adottarla.

In sintesi: senza diversità non ci sarebbe la vita e senza inclusione non potrà esserci sopravvivenza nostra e del nostro pianeta.   

L’inclusione, infatti, non può più essere descritta come un’aggiunta o un optional: è una necessità politica, sociale ed economica e riconoscerlo è urgente.  

Di conseguenza anche una mentalità - un mindset – e un approccio interculturale costituiscono una necessità. E pertanto anche il dialogo lo diventa. 

Potremmo definirla una consapevolezza ‘evolutiva’

Il secolo del paradosso

Il Novecento, infatti, ha dato vita a una situazione che potremmo considerare paradossale essendo stato, allo stesso tempo, sia il secolo dell'incomprensione e della separazione sempre più profonda tra genti, culture differenti, sia quello del dialogo, primo fra tutti quello interreligioso. 

Nel secolo scorso sono maturate tante crisi di coabitazione tra popoli di culture e religioni diverse. Erano situazioni che duravano da molti secoli e sembravano consolidate attraverso un ricco vissuto e la presenza di una molteplicità di istituzioni che ne garantivano la possibilità.  

L' alba del secondo millennio ha visto quindi prevalere, a livello globale, la diffusa convinzione – tanto nelle leadership che tra le persone comuni - che la convivenza tra genti diverse sia molto difficile o addirittura impossibile e, talvolta, anche non ‘giusta’. Convinzioni esacerbate da chi ha stimolato e cavalcato profonde e drammatiche divisioni per mera fame di potere e per interessi economici di natura capitalistica. 

Dall’altro lato il Novecento ha visto personalità come il mahatma Gandhi che, rifiutando la divisione dell'India (in India e Pakistan), viene ucciso da un fanatico indù, dopo aver iniziato il “digiuno fino alla morte” proprio per la pacificazione tra indù e musulmani. 
Per lui la separazione del Pakistan e i conflitti interreligiosi erano il “buio assoluto”. Nella sua esperienza aveva maturato il messaggio di pace e dialogo interreligioso allargato a tutte le religioni e fondato nella consapevolezza – religiosa - dell'uguaglianza degli uomini al di là della loro nascita e della loro classe sociale. 

Una tale maturazione stava contemporaneamente avvenendo nella storia del cristianesimo. Il Concilio Vaticano II, ha costituito, infatti, l'avanzamento più profondo sulla via del dialogo tra le chiese cristiane e le grandi religioni mondiali tanto che il dialogo interreligioso è diventato un tema cruciale per tutti i Papi venuti dopo il Concilio. E non si tratta solamente del dialogo tra i mondi religiosi, ma di una specifica dimensione dell' incontro con l' altro. Non solo, quindi, le commissioni ufficiali, ma anche il dialogo, nella quotidianità della vita, tra gente che appartiene a mondi religiosi differenti. 

Anche a uno sguardo laico, il divorzio avvenuto tra gente che ha vissuto insieme da secoli e il perseguimento – spesso con metodi violenti - di situazioni culturalmente e religiosamente più omogenee appare come un problema mondiale in grado mettere in pericolo la nostra stessa sopravvivenza nel lungo periodo. 

Obiettivo di Sviluppo Sostenibile

La domanda chiave è diventata, quindi: Siamo in grado, oggi, di intraprendere un cammino tale da rendere la società globale più armoniosa, ricca e stabile e le persone più vicine tra loro, non solo ‘malgrado le differenze’ ma, piuttosto, dando valore all’unicità di ciascuna?  

La risposta a questa domanda, possiamo dire, è ‘sostenuta’ dall’IDG (Inner Development Goal) che abbiamo scelto di esplorare in questo mese. Si tratta di “Mentalità inclusiva e competenza interculturale. Disponibilità e competenza ad accogliere la diversità e a includere persone e collettivi con punti di vista e background diversi”.  

Non si tratta solo di fare uno sforzo cognitivo, ma soprattutto di sviluppare la capacità di comprendere e comprendersi reciprocamente. 

Se guardiamo alla società come a una 'comunità comunicativa' nella quale le identità degli attori sociali e delle società si costruiscono solo attraverso l'interazione con l'altro, appare evidente che, per rendere possibile questa interazione non basti solo la comprensione linguistica.  

La filosofia ci insegna che l’identità non è predefinita, ma si costruisce con l’intersoggettività, con il confronto. La società civile è una comunità di persone libere che si riconoscono nell’altro - e attraverso il confronto l’altro conoscono se stessi - in una comunicazione spontanea. 

Questo è uno dei risultati più importanti della filosofia moderna e della teoria sociale e ci ha permesso di avere un diverso approccio al concetto di identità, non più inteso come risultato dell'interazione tra individui autosufficienti e isolati (monadi) ma come risultato di un processo di formazione plasmato nella comunicazione e nella comprensione.  

L'identità dell’Io si costruisce attraverso il lavoro creativo, il linguaggio - i simboli e l’interazione sociale aperta o più semplicemente, attraverso la cultura. 

Ma se si intraprende una comunicazione sociale a partire da una propria presunta identità da affermare e difendere – da valori culturali e sociali chiusi e inamovibili - la comunicazione diventa molto difficile, a volte impossibile, così come l’armonia che consente benessere e sviluppo per tutti. 

Oggi, la società globale o le società globali sono in ricerca di un modello di convivenza sociale armonioso. La questione è che la maggior parte di queste società - anche la nostra - hanno costruito la loro identità attraverso la cultura e la religione, e quindi la convivenza con gli altri – appartenenti ad altre religioni e ad altre culture appare possibile solo come risultato di un processo di assimilazione.  

Assimilazione, integrazione, inclusione

Assimilazione è esattamente il contrario di inclusione.  

Vediamo perché con l’aiuto di una grafica che già conosciamo ma sulla quale vale sempre la pena di soffermarsi.

In sociologia, viene definito ‘assimilazione’ il processo di assorbimento, da parte di un individuo o di un gruppo, dei modelli culturali, sociali, ecc. di un altro gruppo. È evidente che questo implica rinunciare alla propria identità.

Può essere mai questo poco doloroso? Pensiamoci.

Se dovessimo noi, per poter convivere con altri, magari in un luogo diverso da quello in cui siamo nati e cresciuti, rinunciare alle nostre tradizioni, ai nostri simboli, al nostro linguaggio, a ciò in cui crediamo, alla nostra cultura insomma e forse anche alla nostra religione (o almeno alla sua pratica pubblica), come ci sentiremmo?  

Non credo che quello che stiamo provando ci piaccia. Ricordiamocelo quando chiediamo a qualcuno di ‘sposare’ la nostra cultura.  

Se invece parliamo di integrazione – termine spesso usato in maniera inconsapevole quale sinonimo di inclusione - l'attenzione si concentrata su chi - in qualche senso esterno - deve entrare dentro un qualche contesto, che sia una famiglia migrante in una comunità cittadina, uno studente proveniente da un'altra scuola, un nuovo assunto in ufficio o via dicendo. Il contesto compie azioni per integrare, alla persona si chiede di compierne altre per integrarsi.

Non c’è un vero, profondo, desiderio di ‘mischiarsi’ o almeno non c’è da una delle parti. In una prima fase, che spesso dura per sempre, verso la persona nuova venuta c’è tolleranza, non un atteggiamento di pieno riconoscimento e accoglienza incondizionata della sua alterità.  

Quando diciamo ‘inclusione’, invece, l'attenzione si sposta sul contesto. Tutti coloro che sono in qualche modo chiamati ad agire o coinvolti, sono in grado - e desiderano liberamente - di immaginare e mettere in atto azioni trasformative di quel contesto, perché questo permetta a ogni persona - sia nuova arrivata che 'vecchia' - di esistere e esprimersi nello spazio comune mantenendo le proprie caratteristiche e la propria identità e arricchendosi dal mescolarsi con persone che hanno altre caratteristiche e identità differenti. 

In una situazione ideale, proprio le stesse diversità che potrebbero creare problemi sono invece riconosciute e utilizzate come risorse dell'intero insieme e contribuiscono ad arricchirlo, non indebolendolo ma al contrario, rafforzandolo. 

Questo richiede una disponibilità reciproca a includere, a includersi. È un verbo che può essere nella forma riflessiva – deve esserlo – ma non dovrebbe prevedere la forma passiva. 

Come ci si arriva? Solo attraverso l’ascolto e il dialogo, autentici, quotidiani e costanti.  

Questa risposta sembrerebbe ovvia. Ma allora come mai nella storia millenaria, fino ai nostri giorni, è possibile trovare così numerosi e terribili esempi di sordità all’ascolto e di fallimento e negazione del dialogo? 

Come mai il mondo registra ancora, nel 2023 (fonte Caritas), 23 guerre - conflitti ad alta intensità - in atto e più di 350 conflitti ‘minori’?  

E più vicino a noi, nella nostra quotidianità, è una continua contrapposizione tra buoni e cattivi, tra chi ha ragione e chi non ce l’ha? Nessun confronto: tu stai di là, io di qua e i social ribollono di insulti. Servirebbe una capacità diffusa di opporsi a queste fratture, ma sembra esserci, piuttosto, una certa, diffusa, rassegnazione. 

Si sta fermi su posizioni granitiche a difesa di convinzioni ritenute infallibili senza mostrare né l’abitudine né la voglia di dialogare.  

Allora è compito nostro – e di tutti - creare le condizioni per incoraggiare un atteggiamento diverso, che inviti a guardare cose e fatti non solo con i nostri occhi, ma anche con quelli dell’altro, a tener conto delle prospettive altrui, anche se opposte. Dialogare significa allontanarsi dai rispettivi pregiudizi – sospendere il giudizio -, aver voglia di ascoltare e cercare di capire mettendosi in dubbio.  

Il vero dialogo

Il vero dialogo, infatti, obbliga noi stessi e l’interlocutore a precisare bene i motivi e i termini delle questioni mettendo in condizione noi e gli altri di capire in profondità e trovare soluzioni con l’obiettivo di raggiungere posizioni condivise, senza voler imporre le proprie convinzioni, senza mettere in campo capacità retoriche per vincere. 

Dare spazio al dialogo non significa legittimare posizioni che ci sembrano inaccettabili, significa solo essere convinti che chi ci sta davanti e argomenta con noi non è un pazzo o nemico, ma una persona diversa da noi, con idee e convinzioni che vale la pena di ascoltare con attenzione e intenzione, per capire, prima di rifiutare.  

La nostra forza non sta nel rifiutare il confronto ma nell’accettarlo e trasformarlo in dialogo, in una conversazione generativa di nuovi pensieri e nuove possibilità.  

Il dialogo autentico apre a una specie di magia: dove vediamo un bivio, il dialogo apre una pluralità di strade e dialogando si possono aprire viottoli invisibili in precedenza.  

Nel dialogo ci si conosce come persone e si tende a passare da un’idea, da un concetto, dall’astrattezza, al rapporto fra persone concrete che si avvicinano, che co-costruiscono una relazione autentica. Per questo il dialogo è oltre la tolleranza, la presuppone superandola. La tolleranza è statica, il dialogo è dinamico. È una postura esistenziale. 

La verità e il valore del dialogo, infatti, non sono mai limitati in maniera rigida a ciò di cui direttamente si parla, ma in esso è sempre evocato un orizzonte conoscitivo e interpretativo più ampio, entro il quale la singola realtà, il singolo fatto si collocano e diventano più comprensibili. Perché il dialogo non è semplicemente lo strumento con cui indichiamo qualcosa e scambiamo informazioni, ma piuttosto una ‘costruzione di senso’ condiviso. Vitalità fra persone che interagiscono in una dinamica di domande e risposte in cui l’apporto di ciascuno è essenziale e generativo di novità per tutti. 

Per questo anche il dialogo costituisce una necessità.