Psychological Safety: come nasce
Il termine Psychological Safety è stato coniato negli anni '60 del secolo scorso da Schein e Bennis per definire il fenomeno relazionale che, nelle organizzazioni, consente a ciascuna persona di “ridurre la propria ansia di essere accettata e utile”.
Nel 1982, all'ottavo dei suoi 14 Punti per il Management, William Edwards Deming pone “eliminare la paura, così che ogni persona possa lavorare efficacemente per l'organizzazione”.
L'interesse per la Psychological Safety è stato ravvivato da William Kahn (1990) definendola come ciò che consente a una persona di “esprimere se stessa fisicamente, cognitivamente e emotivamente”.
Psychological Safety: cos'è
La Psychological Safety è un fenomeno sociale che si realizza a livello di gruppo con importanti impatti sull'efficacia del team.
Possiamo, quindi, definirla come una condizione individuale favorita dall'ecosistema in cui e con cui l'individuo interagisce, che genera ricadute positive sull'ecosistema stesso, oltre che sull'individuo.
A differenza dell'autostima, della fiducia in sé e nelle proprie capacità o dell'assertività non è una condizione che possiamo favorire autonomamente: si genera nella relazione con le altre persone e in un ambiente emotivo che ha bisogno di essere co-costruito e costantemente alimentato.
La base della Psychological Safety: fiducia
L'elemento di fondo della Psychological Safety è la fiducia.
Fiducia che mostrarsi al gruppo nella propria autenticità, con le proprie luci e ombre, forze e debolezze, non genererà giudizio, riprovazione, scherno ne' isolamento.
Pur non occupandosi specificatamente del tema, anche Patrick Lencioni, nel suo celebre “La guerra nei team”, menziona la fiducia come il primo dei cinque elementi in assenza del quale i team non funzionano in modo efficace.
Cosa accade quando le persone si fidano le une delle altre e del team come ecosistema?
1. esprimono pensieri, idee ed emozioni liberamente, nel momento in cui emergono. Ciò genera una serie di ricadute positive per l'efficacia del team perchè
- non essendo impegnate a costruire e mantenere corazze e facciate, le persone sono completamente ingaggiate nelle attività e nel conseguimento degli obiettivi, senza disperdere energie
- inoltre, le persone sviluppano un sentimento di riconoscenza verso il team e - di conseguenza - un maggiore senso di ingaggio e di responsabilità.
- il libero fluire di idee e proposte aumenta le probabilità di trovare soluzioni innovative, sia in termini di generazione di nuove opportunità, che di evoluzione delle attività già in essere che – ancora - della soluzione di problemi
- la libera espressione di sé rende le relazioni più trasparenti e immediate, elimina l'esigenza di interpretare i pensieri, parole e azioni e - di conseguenza - accelera i processi di cooperazione e favorisce quelli di co-generazione.
2. ammettono errori e mancanze e chiedono aiuto.
In ambienti dove alla fiducia si preferisce la competizione -nell'erronea convinzione che vincere e primeggiare sia una leva motivazionale per chiunque - le persone sono indotte a omettere ciò che non sanno, a enfatizzare i propri successi e nascondere i propri errori. Il risultato è che aumentano le probabilità di assegnare ruoli e funzioni a persone non competenti, sottovalutare persone capaci e d'esperienza ma meno abili nel self-marketing, e - fenomeno più grave di tutti - scoprire gli errori molto più avanti nel tempo, riducendo proporzionalmente le possibilità di rimediare.
Diversamente, negli ambienti fondati sulla fiducia:
- le persone si aiutano reciprocamente, compensando le mancanze l'una dell'altra, e - nel contempo - favorendo l'apprendimento collettivo
- i ruoli sono meno rilevanti - prevalendo il risultato collettivo - e si sviluppano modelli di leadership funzionale in cui ciascun* guida in ciò in cui è più competente e si lascia guidare in ciò in cui lo è meno.
Questa flessibilità è una delle caratteristiche della leadership umile descritta da Edgar e Peter Schein ne “L’arte di creare fiducia”: ovvero la consapevolezza che la vera forza di un(a) leader non consiste nel sapere tutto di tutto ma nel saper riconoscere, scegliere e ingaggiare le persone migliori per ogni esigenza del team.
- ammettendo gli errori nel momento in cui si realizza di averli commessi, si consente al gruppo di intervenire il più rapidamente possibile per porvi rimedio, e si apprende dal proprio errore così da non ripeterlo.
Come detto più sopra, questo livello di fiducia si fonda sulla convinzione che la propria trasparenza non verrà ripagata con riprovazione, scherno o ostacoli alla propria crescita professionale.
3. Le persone esprimono liberamente le proprie emozioni e i propri sentimenti e chiedono sostegno nei momenti di difficoltà emotiva.
Questo elemento sembrerebbe esulare dall'ambito lavorativo, soprattutto se rimaniamo ancorat* al concerto del work-life balance, secondo il quale - come dice l'espressione stessa - la vita è altrove dal lavoro.
In realtà, ciascuna e ciascuno di noi vive ogni giorno la consapevolezza di essere una sola persona e che il lavoro è un elemento della nostra vita e non qualcosa che si aggiunge o affianca.
Ciò comporta che momenti emotivamente intensi - nel bene e nel male- della nostra vita privata, inevitabilmente, impattino sul nostro rendimento lavorativo.
Poterne informare il gruppo, consente a noi di lavorare più serenamente e al gruppo di organizzarsi per compensare temporaneamente la nostra minore efficacia.
Se accettiamo l'assunto che non abbiamo una versione professionale e una privata, è possibile immaginare che cercheremo di replicare/vedere replicati nel team i modelli relazionali che abbiamo sviluppato nella vita privata. Ciò non significa che si debba necessariamente sviluppare amicizia e affetto tra tutt* (eventualità progressivamente più difficile quanto più il gruppo è ampio ed etero-costituito) ma ciascun membro è autorizzato a esprimere le dinamiche nelle quali si sente a proprio agio e quelle dove non e di chiedere - e ottenere - attenzione per le proprie sensibilità.
Le fondamenta della fiducia e della Psychological Safety
Quali sono le fondamenta su cui costruire l'ambiente fiduciario che garantisce la Psychological Safety?
Diversità, Equità, Inclusione
Perché ogni persona possa essere autenticamente se stessa, è essenziale che l'ambiente sia ispirato ai valori DEI (Diversity, Equity, Inclusion)
DEI è l'evoluzione della D&I, l'esplicitazione di un suo sottinteso potremmo dire.
Chi ci segue sa che per noi è un cardine del benessere organizzativo (cui la Psychological Safety appartiene) e che ne parliamo spesso, tra l'altro qui e qui.
Provando - in questa sede- a semplificare all'essenziale, potremmo definirla come:
Diversità come unicità: ogni persona è il risultato dei suoi geni, della sua cultura ed educazione, della sua formazione e delle esperienze che ha maturato.
Con tutte queste variabili, possiamo dire che non possono esistere due persone uguali e neppure abbastanza simili da poter essere inserite in una categoria, se non per un singolo aspetto - che potrebbe aver rilevanze diverse nelle due persone - e quindi in maniera limitante e limitata.
Ogni persona è unica e come tale deve essere considerata.
Equità: uno dei punti del manifesto dell’unicità di Bottega Filosofica recita “siamo tutte persone diverse in quanto uniche e in questa unicità, tutte uguali”.
Il principio di equità della DEI è complesso soprattutto nella sua applicazione.
Si tratta di creare un ambiente in cui l'unicità di ciascun* non sia motivo di vantaggio né di svantaggio.
Questo delicato equilibrio non si ottiene negando le differenze, ma – anzi - riconoscendone talmente tante da non poter considerare alcuna caratteristica personale come discriminante in selezioni e opportunità.
L'approccio presenta almeno due elementi di criticità:
- la purtroppo ancora necessaria esistenza di quote riservate a persone con determinate caratteristiche
- la scarsa attitudine di alcune organizzazioni ad andare oltre gli adempimenti normativi e aprirsi a un vero cambiamento culturale che - lavorando su stereotipi e preconcetti - contribuisca a rendere la DEI parte del DNA dall'organizzazione senza dover revisionare periodicamente gli impegni, e accrescendo così anche il Roi dei maggiori sforzi iniziali.
È evidente che si tratta di un lavoro a tendere che in una prima fase richiede un grande sforzo consapevole e un costante lavoro di monitoraggio e revisione, fino a trasformarlo in prassi.
Inclusione: la parola, derivata da una traduzione letterale dall'inglese, in italiano può suonare ambigua.
Non si tratta di ammettere (e ancora meno annettere) qualcun* nella nostra cerchia sebbene presenti delle caratteristiche diverse dalle nostre.
Inclusione è il terzo elemento di un trio e va interpretata in combinazione con gli altri due.
Se la premessa è che ogni persona è unica e quindi diversa da tutte le altre e che non può essere rinchiusa in categorie - pena non considerarla nella sua interezza e nell'intero spettro delle sue capacità e potenzialità - e che, ancora, nessuna caratteristica è discriminatoria (nel bene e nel male), allora includere significa entrare e invitare a entrare in una comunità che condivide queste premesse, che ricerca e valorizza le unicità di ciascun*, si arricchisce e arricchisce i propri membri delle e nelle differenze.
Ascolto
Anche dell'ascolto abbiamo parlato spesso, tra l'altro qui.
In questa ambito l'ascolto ha la funzione di acceleratore della Psychological Safety.
Quanto più una persona si sentirà ascoltata con sincero interesse e senza giudizio, tanto più si sentirà spinta a esprimere idee, pensieri ed emozioni, a raccontare aspetti di sé e della propria vita che non ha riportato nel cv e che potrebbero rivelarsi utili all'organizzazione, a manifestare capacità e competenze che esulano dalla propria funzione ma che - di nuovo - potrebbero giovare allo sviluppo della persona e del gruppo.
Perché questo fenomeno funzioni, occorre che l'ascolto sia circolare, trasversale e continuo.
In altre parate deve essere praticato da tutt* verso tutt*, indipendentemente dai ruoli, dalle posizioni e dal livello di confidenza.
Anche in questo caso, si tratta di un'iniziale sforzo consapevole e condiviso, fino a diventare prassi.
Feedback
Il feedback - e particolarmente il continuous feedback - è uno degli strumenti più efficaci per dar sicurezza alle persone.
Se ben preparato e correttamente offerto, non solo consente alla persona di cristallizzare comportamenti efficaci e modificare quelli inefficaci, ma anche di esprimersi liberamente e di sperimentare, consapevole di poter sempre contare sul supporto del gruppo.
Come abbiamo avuto già occasione di scrivere , il feedback - per essere efficace e utile - deve essere continuativo, vero e circolare.
È importante dedicare tempo, spazio ed energie al feedback non solo in occasione delle performance review o dell'assegnazione di nuovi obiettivi, ma ogni volta che si senta l'utilità di restituire un'impressione. Se un comportamento o un'azione specifica diventano oggetto di un dialogo in un arco temporale breve, per chi li ha messi in atto è più facile collegare ciò che ascolta con ciò che è accaduto. E allora il feedback, qualunque ne sia il contenuto, svolge effettivamente la sua funzione di nutrimento (feed) per chi lo riceve.
In che senso ‘vero’?
Anzitutto, nel senso di “legato a un comportamento agito dalla persona e di cui chi dà il feedback sia stat* testimone”.
E poi onesto.
Si devono osservare i comportamenti non per cercare difetti da correggere ma con ‘occhi puliti’, neutri, in grado di cogliere anche il buono che vale la pena di cristallizzare.
In che senso ‘circolare’?
La pratica del feedback si nutre di circolarità: diventiamo tanto più efficaci nel darne quanto più impariamo a essere disponibili nel riceverne.
Quindi chiunque deve poterne e volerne ricevere.
La Psychological Safety è un impegno collettivo, un lavoro costante e un 'intervento' culturale
Non può esserci sicurezza emotiva se non viene coltivata a tutti i livelli, in tutte le relazioni, indipendentemente dalle posizioni e dai ruoli.
Ed è una condizione che va costantemente alimentata e monitorata.
È inutile spendere tempo, energia e denaro per scrivere policy e calarle sulle persone, magari per ottenere una qualche certificazione temporanea.
Occorre lavorare sulla cultura dell’organizzazione, considerata come un sistema vivente che si rigenera costantemente nella interazione tra le persone che la compongono.
Non è una questione di regole e procedure è una questione di emozioni che generano pensieri che generano comportamenti che a loro volta generano emozioni, pensieri e comportamenti, in un circolo che può diventare virtuoso con il contributo di tutte e tutti.