Quanto è sostenibile la complessità?

condividi l'articolo su:

​​Il Mondo è un sistema complesso perché frutto di una molteplicità di elementi che, interagendo tra loro, generano una tale variabilità di effetti che possono essere analizzati solo a posteriori.

Siamo dentro questa complessità ogni giorno, in ogni momento, a volte inconsapevolmente.


Tentiamo di costruirci un mondo 'comodo', con un lavoro che ci appaghi almeno quanto basta, vivendo (noi occidentali) in luoghi abbastanza sicuri, in case sufficientemente confortevoli, circondandoci - per quanto possibile - di persone con le quali condividiamo, con diversi gradi di intensità, cultura, idee, valori.

Il nostro ‘piccolo mondo’ ci sembra semplice, nel duplice senso di facile e lineare.

Ma appena apriamo la finestra e proviamo a guardare oltre le mura della nostra zona di comfort, scopriamo che la realtà è immensamente più varia e mutevole dell’immagine che ci eravamo costruita.


Senza scomodare eventi globali come una pandemia, o una guerra a ridosso dei nostri confini, basta aprire un giornale o accendere la tv o un computer per accorgersi che siamo parte di uno scenario estremamente più ampio e complesso della nostra 'bolla' di quotidianità. Viviamo in un mondo globale e, anche se a volte fatichiamo a riconoscerlo, ciò che accade dall'altra parte del nostro mondo ha effetti su di noi.

Guerre, epidemie, crisi economiche, eventi naturali avversi, generano conseguenze che si propagano fino a noi come le onde provocate da un sasso gettato nell'acqua.

A volte serve tempo (per questo fatichiamo a riconoscere le connessioni) ma prima o dopo l'onda ci raggiunge.

Nel 1950 Alan Turing - uno dei padri dell'informatica e dell'intelligenza artificiale - affermava: “Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l'uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza”. Questo fenomeno, circa vent'anni dopo, è stato teorizzato come effetto farfalla ovvero l'idea che una piccola variazione nelle condizioni iniziali di un elemento o un fenomeno producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema.


Da questa premessa dovrebbe risultare più chiaro come le nostre scelte di oggi riverbereranno sulle generazioni future e quanta responsabilità abbiamo, individualmente, come organizzazioni, comunità e Nazioni verso il Mondo e chi lo abiterà in futuro.

L'effetto farfalla ci ricorda che ogni azione, per quanto ci sembri piccola e irrilevante, può produrre effetti - nel tempo - sull'intero sistema.

La constatazione che non vivremo abbastanza a lungo per vedere questi effetti non ci rende meno responsabili.

La sostenibilità è un nostro dovere

​Da più parti si alzano voci allarmate e allarmanti rispetto alla sostenibilità.

Stiamo rendendo la terra un pianeta inospitale per la specie umana.

Come sottolineato da Jeremy Rifkin in un'intervista rilasciata qualche mese fa a The Post International “La coscienza umana sta cambiando di fronte agli sconvolgimenti portati dalle pandemie e dal surriscaldamento del clima. Questi fenomeni distruggono la vita delle persone e l’economia: per noi sono un problema, ma non lo sono affatto per il nostro pianeta (…) È l’ideologia del progresso ad ogni costo ad averci portato sull’orlo dell’abisso ambientale. Abbiamo dato per scontata una concezione del tempo e dello spazio in cui la natura è considerata uno scomodo ostacolo alla realizzazione del progresso e alle esigenze dell’economia. (…) La grande rivoluzione consiste nel passare dall’idea che la natura deve adattarsi all’uomo a una per cui è l’uomo a doversi adattare alla natura. (…) Dobbiamo abbandonare le false idee di progresso ed efficienza e abbracciare una nuova visione in cui l’uomo e il pianeta siano in simbiosi e non in guerra”.


Con molte titubanze e resistenze, rispetto alle problematiche ambientali si sta iniziando ad agire, a tutti i livelli.


Diverso e più complesso il tema della sostenibilità umana e sociale. Paradossalmente il progresso scientifico, tecnologico ed economico, sta acuendo le iniquità.

Il costante senso di scarsità sviluppa egoismi, acuisce paure ancestrali verso tutto ciò - e chi - è altro da noi, genera chiusura ed esclusione.

A tutte le latitudini e in tutti i contesti sociali, non c'è chi possa sentirsi al riparo da marginalizzazione ed esclusione.

Come espresso nel noto sermone del pastore Martin Niemöller contro l'inattività degli intellettuali tedeschi davanti all'ascesa nazista “Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare”.

Anche senza arrivare a quegli estremi (ma senza dimenticarli) ogni giorno assistiamo a piccoli e grandi episodi di esclusione e, anche se non ci toccano direttamente, ci riguardano.

Contribuire a creare un mondo più equo e inclusivo, comporta abbracciare la complessità che nasce dalla diversità e scegliere di viverla come un'opportunità di arricchimento invece che come un pericolo.

La complessità ci fa paura

​La complessità ci spaventa perché ci sottrae al confortevole calore delle nostre certezze. Ma, per citare il filosofo francese Edgar Morin “La vita è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso isole di certezze”.

Di fronte all'incertezza, il nostro cervello va in crisi perché perde punti di riferimento. Un po' come quando sbagliamo strada e ci ritroviamo in un luogo sconosciuto senza riuscire a orientarci. La prima reazione è ansia, smarrimento, poi cerchiamo persone a cui chiedere, impostiamo il navigatore, oppure ripercorriamo a ritroso il percorso sbagliato, ma noto, per tornare al punto di partenza: vogliamo indicazioni certe, piuttosto che provare a cavarcela con le nostre forze.

Se proiettiamo questo inconveniente nelle nostre vite, nelle nostre relazioni sociali (nella vita come al lavoro), se lo rapportiamo alle incertezze economiche, sociali, ai fenomeni globali, il senso di smarrimento e ansia aumenta esponenzialmente. E si aggrava se consideriamo che, nella nostra epoca, all'incertezza si è aggiunta la volatilità, ovvero una tale quantità e rapidità e varietà di cambiamenti da farci completamente perdere la bussola.

Come trovare le nostre isole di certezze?

Utilizzando l'immaginazione e approcciando l'incertezza in modo proattivo.

Diventare anti-fragili: governare sé per affrontare gli eventi


In un articolo apparso qualche anno fa sul magazine on line di Axios, si suggeriva di affrontare l'incertezza ipotizzando il maggior numero di futuri possibili.

È ciò che generalmente accade quando esercitiamo quello che De Bono chiamava pensiero laterale, è ciò che accade quando - affrontando un problema (inteso come questione specifica, non necessariamente una complicazione) - attiviamo la nostra intelligenza creativa, cioè la capacità squisitamente umana di immaginare scenari altamente improbabili, quando non (allo stato attuale) impossibili.

In sostanza, il fondamento della ricerca scientifica.

Identificati gli scenari, occorre predisporsi a fronteggiarli, consapevoli dei rischi e delle opportunità e disponibili ad affrontarli.

Occorre diventare ed essere anti-fragili.


Di cosa parliamo


Il concetto di anti-fragilità è stato introdotto da Nicholas Taleb nell’omonimo libro del 2012, in cui constata come alcune entità traggano beneficio dagli shock, crescano e prosperino quando sono esposte a mutevolezza, disordine e casualità.


A differenza di ciò che è fragile (ciò che non ama la volatilità e subisce danni dalle perturbazioni), di ciò che è robusto (ciò che resiste alle perturbazioni senza modificare il suo stato o subire danni dagli eventi inattesi) e di ciò che è resiliente (ciò che è in grado di assorbire un urto, un evento di stress, in virtù della propria capacità di adattamento), ciò che è anti-fragile prospera nell’esposizione alla volatilità e all’incertezza, traendone beneficio.


Anti-fragilità è, quindi, la capacità che hanno persone, organizzazioni e sistemi di modificarsi ed evolvere quando sono esposte alla volatilità, ai fattori di stress e all’incertezza.


Mentre essere robusti e resilienti ci consente di sopportare e superare gli shock senza che questi alterino il nostro equilibrio, capaci di ripristinare la nostra condizione di origine o trovare una condizione comunque buona, essere anti-fragili significa, invece, essere capaci di considerare l’imprevisto come il motore del nostro cambiamento e della nostra capacità di evolvere.

L'anti-fragilità è un'attitudine, un atteggiamento mentale e pratico che possiamo e dobbiamo coltivare in noi prima di trasformarla in una serie di comportamenti.

Proviamo a vedere come.


1. Consapevolezza


La persona anti-fragile coltiva una profonda consapevolezza anzitutto di sé.

Delle proprie eccellenze così come delle proprie fragilità; e attiva un costante dialogo con sé per decidere su quali fragilità ha senso lavorare (perché ne può trarre un beneficio personale o professionale) e su quali è inutile, perché il beneficio che ne trarrebbe non è proporzionato al consumo di energia e tempo richiesto.

Piuttosto che una quantità di ‘punti deboli rinforzati’ preferisce coltivare poche eccellenze, rispetto alle quali può veramente fare la differenza per sé e per gli altri.

Oltre le competenze, la consapevolezza riguarda anche la propria personalità: la combinazione di aspetti caratteriali, comportamentali e valoriali che rende ogni individuo un soggetto unico.

E il dialogo interno riguarda - anche in questo caso - la spinta a cambiare ciò che non giova, così come l'accettazione di ciò che si è coscienti di non poter cambiare.


2. Approccio sistemico


Le persone anti-fragili pensano e agiscono in modo sistemico.

Consapevoli di essere parte di un ‘tutto’ più grande, che possono (solo) in parte influenzare.

Ciò che la persona anti-fragile sa e fa è però non lasciarsi condizionare da ciò che le accade intorno e sopra, se non nella misura in cui non può prescindere dal tenerne conto o nel caso in cui questa influenza rappresenti uno stimolo e una suggestione ispirazionale.


3. Rapporto con il tempo


L'anti-fragile vive nel presente.

Gli eventi del passato rappresentano un bagaglio di esperienze dalle quali apprendere, per replicare pensieri, azioni e parole producenti e per evitare quelli che si sono rivelati nocivi. Ma, una volta cristallizzato l'apprendimento, il passato viene lasciato andare, nella consapevolezza della sua immutabilità.

L'anti-fragile guarda al futuro in una logica predittiva.

Il suo agire presente è dettato da una visione prospettica anche di lungo periodo, guidato dalla consapevolezza che i grandi obiettivi si raggiungono con piccoli, costanti passi.


4. Interdipendenza


L'anti-fragile vive nell'interdipendenza.

Possiamo definire l'interdipendenza come la relazione tra persone che, pur potendo far bene da sole, scelgono di fare insieme per fare meglio.

L'interdipendenza si fonda sulla consapevolezza individuale di non poter fare tutto al meglio in autonomia, ma di poter trarre beneficio dal migliore contributo altrui.

È caratterizzata da una leadership diffusa, da un modello organizzativo non gerarchico e tuttavia strutturato per garantire efficacia ai processi.


5. Trasversalità delle competenze e apprendimento continuo


La persona anti-fragile non è iper-specializzata.

È piuttosto una persona che, pur avendo sviluppato competenze specifiche, mantiene curiosità e apertura a contaminazioni da parte di altre discipline, culture e linguaggi, dalle quali trae ispirazione per far evolvere in modo creativo e innovativo le proprie competenze.


L'anti-fragilità è un percorso, non un approdo.

Lo potremmo definire uno stile di vita, una filosofia di vita e, potremmo anche dire, a buona ragione, che è ‘il prodotto’ di uno stile di vita filosofico.

Un approccio a sé e al mondo, alle sfide e alle opportunità della vita personale e professionale.

Indipendentemente dalle situazioni contingenti.​